#ATUPERTU CON GLI ATTORI DI INSOMNIUM

INTERVISTA A MARIALAURA ARDIZZONE
Ho trovato fin da subito un forte legame con il testo, una sorta di alchimia immediata. Fin dalla prima lettura ne sono rimasta attratta, rapita, sia per la complessità della trama che per la tematica sicuramente molto attuale e profondamente impegnativa. Si parla di identità, di violenza psicologica, di sogno e vita che si fondono e si confondono. Ho capito fin da subito che era uno di quei testi universali,  in cui ciascuno può riconoscere parte di sé e della propria vita. Per me questo è un testo in cui ognuno può trovare se stesso perché ognuno può riconoscersi in una parte diversa, sentirsela cucita addosso. Credo che una buona drammaturgia debba essere così, permettere a chiunque di interpretare e prendere  da quel testo ciò che riconosce come suo.  E InSomnium per me rappresenta proprio questo. Dopo una prima lunga fase di lettura a tavolino e di analisi del testo  passare alla messa in scena è stata, oltre che una tappa fondamentale, un’esigenza comune di tutti. Avevamo raggiunto un livello di lettura talmente approfondito che da un certo momento abbiamo sentito il bisogno di andare oltre, di ricercare il contatto fisico e soprattutto la vita, di vivere il testo, di sentirlo nel corpo, oltre che nelle parole. Sarah, il mio personaggio, è fragile, che vive un rapporto complesso con se stessa e con gli altri. È una sognatrice nel vero senso del termine, quindi vive in una realtà un po’ ovattata. Profondamente ingenua ed eterea, questa sua qualità attira gli altri personaggi come una calamita, lei ha bisogno di sentirsi amata di sentirsi protetta finendo così in relazioni sbagliate e spesso trovandosi ingenuamente a ferire gli altri. Sarah scappa, anche da se stessa, perché è alla continua ricerca della sua vera identità e di una forma di accettazione da chi la circonda. E sarà proprio questo suo atteggiamento di fuga che la porterà a perdere la persona forse più importante per lei. L’unica disposta ad accettarla così senza giudicare il suo modo di essere. Ha uno spirito romantico che la porta a essere innamorata dell’amore, l’amore in potenziale, quello idealizzato che fa paura. Sarah è una persona che soffre e prova un profondo disagio e per questo ha un fitta rete di relazioni molto complicate, intime e diverse con ciascun personaggio. È guidata dal senso colpa, dalla paura, dalla negazione e al tempo stesso dall’amore perduto, dalla speranza distrutta e quindi dalla sofferenza. Credo che per Sarah, più che per gli altri personaggi, Ashdown abbia un’importanza sostanziale è un po’ come una culla, un posto sicuro, uno scoglio a cui aggrapparsi e il posto in cui scopre il vero senso di famiglia e proprio per questo lei nel presente soffre molto del distacco da questa città e quindi anche dalle persone che la popolavano. Tra tutti i personaggi Sarah forse è l’ultimo che mai avrei pensato di interpretare perché la sento intimamente vicina a me, non sono capace di spiegare qual è l’elemento che me la rende così familiare, essendo io totalmente diversa da lei, forse la negazione, l’idealismo in senso lato, l’idea di una vita altra, di un mondo parallelo in cui rifugiarsi e in cui poter sognare sempre. Sarah incarna la mia idea di teatro e di personaggio. Ho sempre creduto, infatti, che un personaggio sia come un vestito troppo largo allora bisogna indossarlo con cura cercando di modellarlo, di trovare i punti di contatto con il corpo e farli aderire totalmente ed è da li che sono partita per la costruzione del personaggio, aderendo totalmente a quegli elementi, a quelle ferite e a quei vissuti che mi avvicinano e che meglio mi aiutano a conoscere Sarah.
Il testo è sicuramente impegnativo e personalmente mi auguro che al pubblico arrivi tutto e niente, credo che il teatro non debba imboccare il pubblico ma, al contrario, credo che il buon teatro sia quello che, servendosi di un testo e di una tematica filtrata dagli attori, possa trasformarsi in mille testi diversi con mille interpretazioni diverse. Lo spettatore deve sentirsi libero di prendere ciò che vuole prendere da uno spettacolo e reinterpretarlo, in questo senso credo che il teatro sia una catarsi e che un buon testo debba permettere che ciò avvenga.
Questa per me è stata la prima esperienza con Auretta e sono molto contenta di aver potuto prendere parte a questo progetto con lei subito dopo la fine dell’accademia. Credo, infatti, che Auretta faccia un lavoro molto particolare con gli attori e sugli attori, lei ha la capacità di sciogliere delle importanti matasse emotive, la capacità di percepire i punti fragili degli attori e di lavorarci sopra. Ho trovato il suo lavoro assolutamente illuminante in quanto lascia un grande margine agli attori, una totale libertà di essere ma al tempo stesso mantenendo un grande rispetto delle regole e della tecnica. Trovo molto bello il suo modo di fare domande e di farsi domande anche su un testo scritto da lei. Lei è una di quelle registe che dà una grande importanza all’attore in quanto tale percependo le difficoltà e gli ostacoli come se fosse lei stessa attrice. Trovo molto bello il suo modo di elevare la parola riconoscendone un’importanza sostanziale. Credo che una delle sue caratteristiche principali sia proprio l’empatia, per me un elemento fondamentale nella vita in generale e in particolar modo in teatro. Mi sono sentita accolta e mai fuori posto, pur trovandomi a lavorare con persone che lavorano insieme da molto tempo. Si è instaurata una complicità e intesa scenica difficili da raggiungere in così poco tempo e di questo sono davvero estremamente felice. Spero in futuro di poter continuare a lavorare con Auretta perché credo che il vero lavoro di apprendimento, difficile per un attore, inizi paradossalmente proprio alla fine di un percorso accademico, quando si comincia a lavorare e credo che da Auretta ci sia davvero molto da imparare e da prendere.

INTERVISTA A LIVIO BISIGNANO
Questo testo è completamente differente dai precedenti e mi ci sono accostato con molto entusiasmo.
L’atmosfera di un “giallo” sospeso nelle brume del sonno mi ha infatti conquistato fin da subito.
Il mio personaggio si chiama Jeremy, un giornalista che scrive per una rubrica cinematografica.
È un tipo tosto ma disilluso dalla vita a causa di un vecchio torto subìto, che lo ha fatto anche smettere improvvisamente di dormire.
Per questo motivo (non toglietemi le mie otto ore di sonno a notte!) ma non solo è un ruolo molto distante da me ed è quindi una sfida ancora più stimolante poterlo mettere in scena con la giusta misura.
Tra l’altro nella transizione tra le prove al tavolino e quelle in piedi si è evoluto in modo inaspettato, prendendo una piega sempre più cinica, che ha stupito me in primis, in quanto inizialmente lo avevo immaginato con note più “dolci” e accomodanti.
Si trova al centro di molte dinamiche con gli altri, e ad un certo punto il suo spirito indagatore si risveglierà e vorrà far luce sulle domande che circondano la clinica del sonno in cui tutti si sono ritrovati.
InSomnium è un testo nuovo e originale, sempre firmato da Auretta Sterrantino e ispirato da un belissimo romanzo.
Sono certo che coinvolgerà gli spettatori con le sue atmosfere sognanti ed i misteri che legano indissolubimente i cinque personaggi.
Inoltre è lo spunto per una sagace riflessione sul sonno che non potrà non fare riflettere il pubblico su questa funzione fisiologica, specchio del nostro inconscio.

INTERVISTA A LOREDANA BRUNO
Il testo è complesso. Anche in questo caso, come negli altri lavori della Sterrantino, tutti i personaggi sono in scena costantemente e “pesantemente” e ciascuno di loro contribuisce a rendere lo spettacolo ciò che è. E, forse più che in altri testi studiati fino a ora, c’è un mondo “oltre il testo” che è necessario far respirare allo spettatore se si vuole far “vivere” Insomnium.
La messinscena mi ha aiutata a costruire meglio il mio personaggio. A scoprirlo, a trovarlo. Al di là del testo la sofferenza di Veronica, il suo carico di dolore, si legge nei suoi occhi, nelle sue mani, in questa irrequietezza che traspare dal suo muoversi costantemente alla ricerca di una pace che non potrà più trovare. Non è un ruolo facile questo. Veronica è una donna che si è “persa” a causa del dolore. Che ha perso di vista se stessa, si è fatta travolgere dalla sofferenza e, senza rendersene conto, ha distrutto così la cosa più importante della sua vita, in modo irreversibile. Interpretare Veronica è doloroso. Vestire i suoi panni mi ha costretta ad attingere a un bagaglio pesante di emozioni negative che normalmente si avrebbe solo voglia di rimuovere: il rifiuto, la frustrazione, la perdita, il dolore, il senso di impotenza, la rabbia. Il rapporto con gli altri personaggi è frustrante. Nel senso che Veronica cerca di farsi ascoltare ma è come trasparente ai loro occhi. Tranne che per il dottore che per lei nutre un interesse solo scientifico. È attratta da Sarah che è il suo grande amore. Solo Sarah, la sua Sarah, potrebbe riuscire a lenire il dolore che prova per la perdita della figlia. Solo Sarah potrebbe sollevarla dal senso di colpa per essere stata la causa della morte di Alice. Da Sarah vorrebbe essere confortata, abbracciata, consolata, protetta. Ma Sarah non sa amare. Non vede altro che se stessa e il mondo fatto di personaggi frutto della sua immaginazione e, in quanto tali, destinati a deluderla costantemente nella trasposizione tra la perfezione del suo mondo immaginario e l’imperfezione della realtà.
I personaggi di questo spettacolo sono in un certo qual modo tutti “persi”. A farli smarrire facendogli perdere il controllo: una patologia, un forte dolore, una delusione, una grande passione, l’ostinazione. Qualunque sia la causa l’effetto è che sono anime alla ricerca di una felicità che non trovano in se stesse ma che cercano “altrove”. Il messaggio, quello che io traggo e che vorrei arrivasse, è che non bisogna mai “perdersi”. Bisogna imparare ad accogliere, ad accettare, a superare e ad amare prima di tutto se stessi. Non amare se stessi, cedere il “potere” di renderci felice a qualcun altro, non affrontare il dolore, incaponirsi, ostinarsi, “perdersi” porta, inevitabilmente, solo a conseguenze ancor peggiori e troppo spesso irreversibili.

INTERVISTA A ORESTE DE PASQUALE
Come tutte le drammaturgie scritte da Auretta, anche questa presenta diversi piani di lettura. È un testo di difficile interpretazione, ammetto di essermi trovato in difficoltà durante i primi giorni di tavolino, ma una volta trovata la giusta chiave me ne sono innamorato, come sempre. Mai come stavolta lo spettacolo è letteralmente sbocciato nel passaggio dal testo alla messinscena. È un lavoro che, secondo me, dipende moltissimo dagli attori che lo interpretano, dalla gestione dei movimenti coreografici, dalle musiche, come sempre perfette, del Maestro La Marca e dagli elementi scenografici. Il testo è ovviamente fondamentale, ma non è preponderante sul resto. Direi che nel passaggio tra tavolo e prove in piedi tutti gli elementi si sono mescolati alla perfezione come raramente accade.
Il dott. Gregory, il mio personaggio, è complesso, da capire e da interpretare. Può sembrare in ombra, meno attivo degli altri, ma in realtà è sempre vigile, attento, una sorta di burattinaio che non lascia nulla al caso e che, attraverso domande e allusioni, porta la storia esattamente dove vuole. È certamente un personaggio “contro”, un antagonista, ed entrare nella sua testa è stato un percorso tortuoso. Tortuoso e proprio per questo molto soddisfacente. Una volta carpiti i suoi pensieri più intimi si è rivelato molto divertente da interpretare, ancorché faticoso. Leggendolo superficialmente può risultare semplicemente cattivo ma, come tutti i personaggi di Auretta, è spinto da un fuoco sacro, una ricerca che lo divora dall’interno, una ricerca che forse non avrà mai fine.
La mia speranza è, come sempre, che il pubblico esca sì emozionato, divertito magari, ma soprattutto con delle domande. Domande che non è detto abbiano delle risposte, almeno non immediate. L’importante è porsi delle domande e impegnarsi, affannarsi alla ricerca di risposte. Ecco, spero che il pubblico esca con una gran voglia di ricerca.

INTERVISTA A CLAUDIA ZAPPIA
Un testo come Insomnium, dalle apparenti dinamiche semplici tra i personaggi, non lascia molto spazio a un approccio distaccato o con dinamiche di estraniamento. A una prima lettura, tutto sembra incastonato in sviluppi quotidiani di relazione personale. Addentrandomi man mano nella lettura e nell’analisi del testo invece, quello che apparentemente sembra un semplice incontro, ha rivelato una trama molto complessa che mi ha spiazzato. Ho sentito necessario trovare un contatto diretto con esso, riuscire a cucire addosso tutte quelle sensazioni che si sono depositate nel mio cuore come una bomba a orologeria pronta a scoppiare. Ogni singola parola è un mondo a sé, è un testo che pur ignorandolo, non lascia spazio ad analisi o rapporti e sensazioni superficiali ma ti costringe a spogliarti, anche contro la propria volontà.
La peculiarità del testo risiede proprio nelle particolari dinamiche che avvengono all’interno di ogni personaggio e come queste si riflettono sugli altri. Ho immediatamente sentito di far parte di una partita a scacchi, in cui ogni parola del testo mi costringeva a giocare. Ho creato un luogo intimo all’interno dell’animo della Dottoressa che avrebbe dovuto inizialmente difendere e poi liberare e questo mi ha permesso di trovare un terreno fertile su cui giocare. Avendo molto da preservare, l’unica soluzione risiedeva in questo: cercare una speranza da darle, qualcosa che potesse perdere e una finalità per cui giocare. All’inizio è stato difficoltoso ma poi è diventato quasi necessario per la costruzione dei suoi passi e per il percorso/viaggio che il testo la portava ad affrontare.
Affrontare un personaggio come la Dott. Madison è stato molto stimolante poiché si tratta di un carattere dalle mille sfaccettature. Apparentemente è una donna forte, che ama il suo lavoro in relazione al fatto che può aiutare chi è in difficoltà, lei sente molto la missione che ha sposato proprio in relazione a un passato che non le appartiene più. Come chi conosce i suoi errori e sa di non doversi ripetere. La Dottoressa protegge e ama chi ha intorno ma anche studia le loro figure per ritrovare quel senso che non riesce più a dare al suo vissuto di un tempo, cerca le risposte negli occhi degli altri per ritrovare i suoi e le troverà, con tutte le conseguenze, negative o positive. Che si possano ripercuotere sugli altri o meno non è importante: ormai è necessario inondare di luce “l’ombra che bisbiglia ancora”. La Dottoressa ha un’Ombra importante, un’Ombra che la muove e la accompagna durante tutta la storia, un’Ombra che il pubblico imparerà a svelare pian piano.
Vorrei che il pubblico scoprisse l’importanza di essere umani. Quella condizione di empatia che ci spinge a essere necessari per l’altro. Insomnum parla proprio di questo: di condizioni interiori, traumi derivanti “dall’assenza”. Assenza di Sonno come bisogno estremo di cura dell’altro, di ricerca, di un contatto, un contatto che deve essere sanato, come una faccenda in sospeso che non riesce a dar serenità fino a che non sarà risolta. Quello che ogni giorno ci logora, il bisogno di sentirci amati. Spero che il pubblico possa entrare in questa dimensione del sentimento, dove per quest’ultimo non s’intende qualcosa di superficiale ma la condizione base dell’essere umano: il desiderio di accettazione di sé.
Lavorare con Auretta è stato molto interessante poiché abbiamo aperto la strada della ricerca, una via piena di errori e di difficile percorrenza ma che alla fine ha permesso di trovare il sentiero giusto. Per quanto mi riguarda trovare una personalità così mi ha dato la carica per dare sempre più, poter essere me stessa e quindi lavorare al 100% e questo ad oggi, purtroppo è molto raro. Poter affrontare il mio lavoro come quello che sento un’importante missione di vita è un vero regalo. Un piacere immenso. Spero che questo rapporto possa crescere in maniera tale da diffondere questa “missione” in più luoghi possibile.