TRAMA, TRAMAE

QUASI ALTROVE

di Elena Zeta

Mi sono spesso trovata in difficoltà in queste ultime settimane nel raccontare di Wunderkammer, nel rispondere all’annosa domanda “Di che cosa parla?”, che poi, spesso, vuole chiedere “Qual è la trama?”.

Non che questa domanda in sé sia fuori luogo, ma è il concetto di “trama” che è in qualche modo delicato, come tutte le parole che sono, in quanto parte di un codice, arbitrarie, utilitarie, e il cui significato si sposta naturalmente nel corso del tempo, impercettibilmente come le placche tettoniche.
La trama viene definita nel vocabolario come l’insieme degli eventi più significativi contenuti in un racconto. Sinonimi: intreccio, intrigo, macchinazione, soggetto, storia.
Molte delle difficoltà nel dare una risposta chiara, sono conseguenza del fatto che troppo spesso associamo il termine “trama” al termine “storia”, a una serie di eventi esterni e macroscopici.
La parola “trama” nella sua accezione primaria è il “filo di trama” (il filo mobile che, a seconda di come viene intrecciato con quello fissato al telaio, l’ordito, dà una diversa tessitura). Se ci concentriamo sul filo piuttosto che sul tessuto, il ragionamento che ne consegue si sposta leggermente ma provoca un terremoto: l’attenzione non è più sul risultato in sé, ma sui singoli nodi che lo compongono, sui momenti particolari “di svolta” nella normalità, che rendono ogni vita unica.
In fondo cos’è una storia? Un equilibrio iniziale che si rompe e, attraverso delle prove – o peripezie che dir si voglia – viene ristabilito, lo stesso equilibrio o – ancora meglio! – un nuovo equilibrio. La vita, a questo punto, non è altro che un insieme di storie, un susseguirsi di equilibri che si creano e poi si rompono, si cercano e si ricreano, per poi rompersi nuovamente e così via…
A ben vedere, l’elemento senza il quale non esisterebbe una storia – il suo motore – è quindi la rottura, il confronto, anche conflittuale. Serve a progredire, a non restare fermi nello stesso punto. Eppure il conflitto è una cosa con cui abbiamo un rapporto così strano: se da un lato lo cerchiamo in maniera bieca per esorcizzarlo (basti pensare, se non a quando cerchiamo questione col primo sconosciuto che passa, a quando urliamo ai superconosciuti davanti alla tv), dall’altro ne rifuggiamo il nucleo più intimo e “utile”, il NODO principale.

Il conflitto, in sé, è fisiologico e – oserei dire – sano. È quando se ne rifugge, lo si sopprime, lo si evita, che si crea uno squilibrio, in eccesso o in difetto. Perché si finisce inevitabilmente per non superarlo.
E infatti la parola latina “trama” viene proprio dal verbo “trameare/transmeare”, letteralmente “andare oltre”.

In fondo, la trama non è altro che il “come”, il modo particolare di “andare oltre” e superare il conflitto, spingere sui limiti e allargarli un pochino alla volta.

Ci sono quindi delle trame “macroscopiche” e ci sono delle trame più “sottili” (delle trame nelle trame), delle trame interne, della mente, dell’anima, – se vogliamo – della percezione, che avvengono nel giro di un istante infinito che pure può – a quanto pare – continuare ad essere diviso in istanti più piccoli, all’infinito…
Trame particolari per ognuno di noi, ma in fondo rispondenti a delle geometrie primarie, a dei meccanismi base insvelabili, indescrivibili, ma in qualche modo trasmettibili. Attraverso atmosfere, ritmi, figure, suoni, schegge di vita, di sentimento, di pensiero, che parlano di per sé stesse, mostrando contrasti e armonie semplicemente accostandosi tra loro. Sussurrando domande piuttosto che declamando risposte. Impressionando. Proprio come ci ha insegnato – molto bene aggiungerei – il vecchio Edgar.