#ATUPERTU: L’ASSISTENTE ALLA REGIA DI WUNDERKAMMER

INTERVISTA A ELENA ZETA

Sono stata imbarcata in un’avventura bellissima! Auretta Sterrantino​ e Vincenzo Quadarella​ (e tutti i membri della compagnia) sono delle persone non solo splendide ma competenti, che oltre alla mia simpatia si sono guadagnate facilmente e sin da subito la mia stima: la serietà, l’attenzione, l’impegno – che poi, in una parola, si chiama dedizione – che hanno verso il loro lavoro è massima, senza mai perdere di vista il rispetto che è alla base di ogni relazione umana e soprattutto creativa. A mio avviso, il teatro è prima di tutto un’esigenza, poi uno stile di vita e, solo dopo, un “lavoro” nella comune accezione del termine – anche se, sì: vorremmo riuscire a mangiare il pane sudato sul palcoscenico. Sin dal nostro primo incontro conoscitivo – mai a senso unico, in cui ci si proponeva a vicenda con grande umiltà – ho avvertito di trovarmi di fronte a persone che hanno e vogliono diffondere questo stesso spirito.

La scelta di (ri)stabilirsi proprio a Messina – che, a fronte di un fermento fuori dal comune, pone problemi pratici al limite dell’assurdo – e la volontà di investire su quello che c’è – perché, checché se ne dica, c’è – ne sono la testimonianza più grande. Coraggio, amore, passione, e una grande fiducia, questi sono i sentimenti che aleggiano intorno a noi tra il palco e le poltrone, intorno al tavolo di casa o al bancone del bar. Ed è innegabile che – al di là dell’estetica – ci voglia coraggio a proporre spettacoli di sapore tragico, frugare nell’umanità senza fare né farsi sconti, senza avere paura di distaccarsi da una certa “troppa leggerezza”, da quell’intrattenimento che sempre più coincide con la distrazione, a non girarsi dall’altro lato per riuscire a sopravvivere in un momento storico così delicato e tormentato come quello in cui ci ritroviamo a vivere.

Io non ho mai scritto – né tanto meno diretto – storie con questa forza tragica, anche se sono – ovviamente, mi viene da dire – molto legata ai miti, ai personaggi e ai modi della classicità greca così cari ad Auretta, rintracciabili dopo millenni ancora oggi, ovunque, in qualche modo immortali e perciò estremamente affascinanti. Negli ultimi anni – che sono gli anni più duri, che sono gli anni del “Ce la farò? Si può fare?”– sto concentrando la mia attenzione sulla ricerca di un qualcosa che colmi questo vuoto: cerco i mattoni giusti per un ponte che ci aiuti a sfuggire a questa grande paura della serietà e della riflessione.

Il lavoro che sto facendo con QA, in qualche modo, mi ha ripreso per il colletto nell’incertezza di una sbandata, mi fa sentire di nuovo “insieme a”. Com’è casualmente coincidente, alle volte, la vita! Edgar Allan Poe, il mio primo vero amore letterario, è adesso la chiave di una nuova pagina bianca: essere assistente alla regia è un piacere inaspettato! È sicuramente un lavoro durissimo, anzi più lavori durissimi in uno: bisogna avere cento occhi e –soprattutto con QA! – mille orecchi, essere sempre pronti a ogni evenienza e avere sotto controllo – almeno – tre/quattro cose contemporaneamente; ma soprattutto, rispetto a un lavoro di scrittura o di regia, è un grande esercizio all’ascolto, alla ricezione dell’altro per poi tessere una trama collettiva. Io, in questo momento, mi sento un po’ come il rocchetto che tiene i fili colorati di un magico arazzo.

Il testo di Wunderkammer – mi ripeterò – tende senza esitazioni e senza mascheramenti al classico, e dei testi classici ricalca alcune “regole”: il tempo unico e indefinito della storia, la presenza dei cori con la loro metrica – che io personalmente non adoro scrivere, ma che è una goduria ascoltare – e un conflitto irrisolvibile. Irrisolvibile apparentemente, irrisolvibile con le soluzioni preparate in busta pronte in cinque minuti di microonde: l’eterno rimpallo tra ciò che siamo, ciò che vorremmo essere e ciò che sentiamo di essere.

“William” Allan Poe, si ritrova una notte in un luogo etereo e indefinito, sotto l’occhio di una pallida luna che l’ha guidato non sa da dove, non sa verso dove, dentro abiti che non sono i suoi, e si accorge allora di non sapere nemmeno chi sia, non più. Nella sua ricerca totalizzante, nelle apnee tra le correnti dell’anima, nell’ossessione di “percezioni negate alla ragione”, ha forse perso sé stesso e si rende conto di aver perso da tempo gli altri, di aver perversamente fatto a pezzi ogni sua possibile felicità, di girare in tondo, sempre, ancora e ancora. Il cammino si distende tra due fuochi: tra la perdita di sé stesso dentro l’altro e il pericolo di fagocitare, al contrario, l’altro dentro sé stesso, di vederlo come una semplice funzione, uno specchio deformante, un mezzo. È forse il dilemma dell’artista? Forse. Ma se prendiamo per buono che la creazione sia una “semplice” espressione di ciò che siamo e abbiamo intorno, sono convinta che questo sentimento riguardi tutti noi più di quanto si possa pensare: la ricerca di un equilibrio tra questo mondo così enorme e schiacciante, e la libera espressione della nostra “più intima natura”.

È difficile non perdersi in paroloni e ghirigori nel tentativo di spiegazioni “razionali”, soprattutto entrando dentro un testo così denso, così ricco di frecce che ti trafiggono in una regione dello spirito che spesso vogliamo dimenticare di avere.

La grande bravura di Auretta, a mio avviso, sta nel non distaccarsi mai da questo “sentire tragico” (come lo definiva Albert Camus), ma nel riuscire molto bene a modernizzarlo – anche se non è una delle mie espressioni preferite – a renderlo vivo e pulsante al di là della spiegazione che se ne può dare. E questo riesce a farlo mirabilmente attraverso la scena, nuda, visionaria, eterea e cangiante come questo testo, attraverso le musiche la cui idea –devo ammetterlo – all’inizio mi aveva lasciato qualche titubanza, ma che in realtà non sono solo complementari allo spettacolo, ma lo avvolgono in un’atmosfera sospesa e pulviscolare.

Credo che questo progetto mi fosse necessario, e spero lo sia anche per il pubblico che verrà a teatro, soprattutto in questo momento in cui sembra che l’unico modo di reagire a una società così brutalmente invasivo sia la cieca adorazione dell’io.