#ATUPERTU: LA REGIA DI WUNDERKAMMER

INTERVISTA AD AURETTA STERRANTINO

Abbiamo iniziato questa avventura a Messina circa quattro anni fa. La cosa che mi aspettavo e continuo ad aspettarmi da Atto Unico, dal lavoro fatto per la rassegna e con la rassegna, dal lavoro fatto con QA, da questo nuovo anno e da quelli che verranno è crescere. Confrontarmi con gli altri e sentire intimamente punti di contatto e differenze. Questo in realtà è quello che mi aspetto dal teatro in generale. Potermi confrontare con me stessa e con l’altro da me. Per questo motivo cerchiamo di diversificare i nostri ospiti ma di tenere una continuità con quelle realtà che sono disponibili a mantenere il dialogo aperto nonostante le diversità. Per questo stesso motivo abbiamo deciso di dedicare la rassegna ai Maestri, perché vogliamo emerga chiaramente che conduciamo la nostra ricerca affondando pienamente nel passato. Un passato necessario perché esista il presente e perché possiamo proiettarci verso il futuro, verso una prospettiva di progettualità. Per questo ci piacerebbe ospitare sempre più specialisti e offrire la possibilità agli attori professionisti di conoscere altri modi di fare teatro per poi poterli declinare all’occorrenza. Abbiamo tante cose in pentola e piano piano speriamo di definirle tutte. Resistere, questo è il progetto più grande. E continuare a fare nonostante le difficoltà.

Quest’anno vedo Atto Unico come fosse un palazzo bellissimo con tante stanze. Ciascuna raccoglie un segreto meraviglioso, un tesoro da preservare e consegnare al pubblico. Per questo il primo spettacolo non poteva che portare questo titolo. Apre la porta su tutte le altre stanze ma soprattutto apre la porta sul mondo articolato e controverso di Edgar Allan Poe. Una Wunderkammer in sé e per sé. Un microcosmo popolato di paure, tensioni, pulsioni, emozioni, inclinazioni, follie, perversioni, un microcosmo che incrocia la vita e la “fortuna” di Edgar Allan Poe con la sua produzione letteraria e poetica e le sue teorie sulla composizione.

Il testo con le sue atmosfere è stato costruito immergendomi nella scrittura di Poe e nel sound de La Casa delle Candele di Carta che già da tempo, soprattutto attraverso Vincenzo Quadarella, ha cominciato a lavorare su questo autore. Un lavoro sulla musica e con la musica che si è intrecciato con un imponente lavoro sulla parola e il suo suono, tentando di tirar fuori quanto più possibile il senso della poetica di questo autore. In questo è stata per me fondamentale la prospettiva con cui Vincenzo ha guardato a Poe e i testi stessi delle sue canzoni. Ed è stato importante il confronto con Filippo La Marca per le improvvisazioni e i colori dei suoni.

In scena non c’è Poe, eppure si respira a pieni polmoni. Non ci sono i suoi racconti, eppure trasudano da ogni piega. Il lavoro è stato difficile, perché ho cercato di tirar fuori tutto questo mondo, muovendomi tra la biografia e l’opera, senza mai essere diretta, ma scegliendo la stessa strada dell’autore. Un viaggio nei meandri più reconditi della coscienza fino a trovarsi faccia a faccia con se stessi. Una discesa nel Maëlstrom. E poi? Una volta giunti lì è obbligatorio guardarsi davvero e decidere. Decidere che fare di ciò che si è creduto di essere, di ciò che si voleva essere e ciò che si è stati. In un rapporto di giochi e rimandi con l’altro in cui continuità, contiguità e differenze costruiscono un’identità ma a volte la confondono.

Ho letto quasi tutto quello che Poe ha scritto e ho letto molte cose scritte su di lui, soprattutto ho studiato il rapporto e la percezione che di Poe hanno avuto poeti come Baudelaire in particolare, ma anche Verlaine e Apollinaire.
È stato difficile riemergere da quelle acque ma poi alla fine, come sempre, la scrittura è venuta da sé. Se dovessi suggerire alcune letture prima della visione dello spettacolo consiglierei “William Wilson”, “Ligeia”, “Il crollo della Casa degli Usher”, “Il cuore rivelatore”, “Il pozzo e il pendolo”, “Il demone della perversità”, “L’uomo della folla”, “La maschera della morte rossa”, “Una discesa nel Maëlstrom”, “Ulalume”.
Ma sono solo alcune delle suggestioni più immediate che tormentano una drammaturgia indipendente, che affronta l’uomo e i suoi demoni, le sue solitudini. Sicuramente per i conoscitori profondi di Poe alcuni riferimenti saranno più immediati, ma in ogni caso abbiamo cercato di costruire lo spettacolo come sempre a strati, ognuno può scegliere di scendere al livello successivo, o fermarsi là dove la fruizione lo gratifica.
Come in “Nudità. Chiaroscuro permanente”, e in parte in “Matrioska”, questa pièce affronta, tra l’altro, nuovamente il rapporto dell’artista con la sua opera, con la creazione e la fruizione. E come in Nudità, ci chiede di accettare il nostro lato più oscuro, perché solo così possiamo evitare che esploda. Ci chiede di guardare negli occhi il marcio, l’inaccettabile, il repellente, l’inappropriato per potercene liberare senza che ne diventiamo preda.

Siamo così, fatti di chiari e scuri, di luci e ombre. Immersi in situazioni delle quali non abbiamo totale consapevolezza perché ascoltiamo solo il nostro ego e non le nostre istanze più intime e sincere e soprattutto perché neghiamo l’altro. Le sue istanze, la sua sensibilità, la sua libertà di stare al mondo. Questa pièce vorrebbe in un certo senso essere un invito all’ascolto, all’attenzione reale verso i nostri sentimenti e verso quelli altrui. Non possiamo continuare a calpestare ciò che non ci piace o ignorarlo. Non possiamo cercare la risata facile e negare a noi stessi quell’aspetto che più ci caratterizza: il logos, che è ragionamento e parola e che si articola attraverso il confronto e non l’isolamento.
Il nostro è stato un lavoro di scavo, condotto attraverso le musiche, i suoni, il corpo. Un lavoro che ci ha imposto fatica e sofferenza. Perché in scena tutto fosse a fuoco e contemporaneamente poliedrico.

Come sempre insieme al lavoro su musica, parola e interpretazione – che non è stato facile – abbiamo portato avanti uno studio sul corpo e sul movimento incentrato sulla plasticità della materia, dell’essenza.

È certamente stimolante affrontare lavori nuovi e capire cosa rimane dei precedenti e quali nuove suggestioni si formano. Ed è bello sapere di essere un gruppo compatto che cerca e ricerca nella stessa direzione, con la stessa dedizione, amando ciò che fa e accettando la sofferenza come ricchezza e non fuggendola come demone.