APPUNTI DALLA TERRA DELLE CENERI #23

Diario delle prove di “Prometheus“, QA-QuasiAnonimaProduzioni
a cura di ELENA ZETA

mercoledì 10 maggio 2017

GIORNO VENTITRÉ

Oggi è il giorno.

Sì, era il giorno anche cinque giorni fa, ma ora è un giorno più importante. Da oggi per i prossimi cinque giorni, abbiamo un teatro.

Ed è veramente così. Quando attraversi uno spazio, lo riempi, lo modifichi, lo vivi, quello spazio diventa davvero tuo. Poi tutto finisce, ma è anche per questo che certe cose si amano tanto pazzamente.

Entriamo con aria trionfante alla Sala Laudamo. Che, a dispetto delle dimensioni, è un teatrino veramente suggestivo. A me piace da morire. L’aria raccolta, il ballatoio che si affaccia sulle poltrone, il palco incassato nella stanza. Quante volte avrò letto le date di nascita e di morte scolpite sulle colonne? Di Bach, Mozart, Bellini e non ricordo più chi altro. Non lo ricordo mai così posso rileggerle sempre.

Insieme a me c’è l’ultimo componente della banda, Stefano Barbagallo. Nome in codice: il luciaio.

Regi mi ha gentilmente “comandato” di assisterlo dato il suo impegno a RadioStreet, il luciaio mi ha gentilmente “concesso” di sbirciare nella sua bottega.

Purtroppo, appena abbassate le americane, ho appena il tempo di imparare “Proiettori, lente convessa, carrello interno, ali grandi (bandiere) esterne”, che tutto si ferma.

Il luciaio sale a vedere che cosa non succede.

E nell’attesa che si sblocchi qualcosa dai piani alti – del teatro, del cervello, e del cervello del teatro −, io scrivo, appollaiata su una poltrona rossa.

Esiste un momento di particolare densità nel processo di metabolizzazione. È il momento di saturazione.

Non prendiamoci in giro: non è un momento idilliaco, e nemmeno piacevole – anzi. È decisamente spiacevole. In più le congiunzioni, astrali (?), energetiche (?), karmiche (?), fanno sì che quando cade un pezzetto di cielo, a catena rovina giù tutto come pezzi di un puzzle, come intonaco che si scrosta dal soffitto. Improvvisamente tutte le ansie, i dubbi – preesistenti o meno è indifferente – valangano giù.

Fattori interni ed esterni – prevedibili o meno non importa – si addensano in una cappa che avvolge tutto, tutti annaspano tra i banchi di nebbia.
Ma la saturazione non si evita.
Non nel senso che non si può evitare. Nel senso che non si deve evitare.
(Divincolarsi nelle sabbie mobili ti fa affondare di più.)

 

Nel senso che, banalmente, più ti arrovelli sempre sullo stesso pensiero più confuso ti sembrerà tutto il ragionamento. Nel senso che, mentalmente, più informazioni inserisci nel tuo cervello più il tuo cervello non smetterà mai di lavorare. Nel senso che, esemplificativamente, il mio ex coinquilino iscritto a statistica, per quindici minuti studiava e per cinque “guardava” la tv, se avesse fatto diversamente non avrebbe imparato nulla della gran mole di dati che aveva sottomano.

Ed è a questo che serve la saturazione, per l’appunto. A riavviare il cervello. A far prendere aria alla mente. La saturazione ci sbatte in faccia che – comunque sia – non sei mai al sicuro dai problemi e quindi non puoi essere esonerato dalla ricerca di soluzione.

Dopo la saturazione, dopo aver messo l’ultima goccia nel vaso, succede che, come nei sogni, come la deframmentazione del sistema, il nostro essere sistema tutto al suo posto e ricava – quasi magicamente − ancora spazio per agire; laddove prima c’erano solo pensieri pressati e ragionamenti accalcati.

La giornata di oggi è praticamente persa.
Ma.
Domani ci guarderemo con un sorrisetto sbeffeggiante di sufficienza.