#ATUPERTU CON L’ASSISTENTE ALLA REGIA DI PROMETHEUS

INTERVISTA A ELENA ZETA

Solitamente evito di crearmi aspettative. Non tanto per la cinica regola “evitando le aspettative si eliminano automaticamente le possibili delusioni”, ma perché il non crearsi aspettative – che non vuol dire non immaginare ogni possibile possibilità e oltre – preserva la meraviglia delle cose che accadono e scaccia invece gli schematismi preconcetti che spesso filtrano la comprensione profonda di ciò che ci circonda.

Posso però ben dire cosa non mi aspettavo, o cosa comunque mi ha sorpresa.

Intanto, svolgere la prima metà delle prove a Roma mi ha resa molto felice per molti motivi, professionali e personali. Entusiasmante soprattutto la location che ci ha ospitato con gentilezza e generosità, immersi in luogo che non poteva essere più lontano da quello in cui ci immerge il testo, ma che forse proprio per questo ha contribuito al nostro lavoro costruendo i livelli di una gigantesca matrioska che mischia diversi piani temporali e spaziali. Ma per scoprire questo magico luogo (e tanto altro!) vi rimando agli “Appunti dalla Terra delle ceneri”, diario delle prove che trovate nella sezione Approfondimenti del sito.

 

Passando al lavoro vero e proprio, credo sia obbligo cominciare parlando di Sergio Basile, per lo meno cronologicamente. Il fatto è che – sempre per quella storia dei preconcetti – automaticamente ci si immagina che lavorare con persone di navigata esperienza sia una sorta di nebbiosa sudditanza, che “i grandi” siano tutte persone pompose, piene di sé e soprattutto con una miriade di assurde pretese sugli altri; devo invece dire che tutto ciò non è riconducibile a Sergio Basile, il quale ha, sì, forte pretesa che il risultato sia di alto livello (e chi no?), ma che ha dimostrato nel lavorare con noi grande umiltà, la quale deriva in parte – sono sicura – dalla fiducia e dalla stima che nutre in Auretta. È stata evidente a questo proposito la sfida accettata – se pur a livelli diversi – da Auretta stessa, ma soprattutto da Oreste, che mettendo da parte ansie e titubanze, sta riuscendo a dar vita a un personaggio difficile, molto poco piatto e pieno di sfumature sottili quale è il Prometeo di questo testo.

 

In fondo, c’è una buona armonia d’intenti e di sentori in questo piccolo gruppo, bisogna riconoscerlo. I lunghi, intensi e densi momenti di lavoro e assoluta concentrazione, sono bilanciati da altrettanto lunghi e densi – e seri! – momenti di pausa e confronto, distrazione, chiacchiera, risa.

 

Il lavoro di costruzione sul testo che stiamo portando avanti – grazie anche alle competenze di Sergio e Oreste – è piacevolmente fluido. Rispetto al montaggio di Wunderkammer che era necessariamente molto schematico, in cui la prima battuta era sempre della regia, sono ora gli attori a lanciare la palla per poi ricevere il rovescio di Auretta e instaurare insieme un palleggio creativo.

Ecco, questa la cosa che meno mi aspettavo: il lavoro di assistente è molto più duro di quello che ho sostenuto con Wunderkammer! Strano, si, in apparenza, ma anche no. Si sarebbe portati a concepire un lavoro con soli tre attori (che poi, nell’effettivo, sono due più una) molto più semplice, ma il teatro ribalta anche questo: se ci sono meno elementi in uno stesso spazio, ci sono – teoricamente – anche meno combinazioni tra loro, è quindi più vicino il rischio di monotonia. Immaginate di dover spostare i mobili di una stanza: se avete tutte le pareti occupate, sarà abbastanza facile avere una camera “nuova” ogni volta che lo desiderate; se possedete solo una libreria e una scrivania, dovete metterci molto più ingegno.

Inoltre – come prima accennavo – la fluidità del palleggio tra regista e attori fa sì che la ricerca del personaggio, dei rapporti e della situazione sia costante, dalla lettura a tavolino alla prova generale, e lascia a me l’impegnativo compito di registrare tutto ciò che accade ai due fronti del palcoscenico, creando una specie di archivio dal quale poter pescare in ogni momento, e – mi permetto – di avere una visione più oggettiva rispetto a chi è in immersione. Se a novembre facevo il rocchetto, adesso monitoro i parametri vitali dei miei compagni che cercano tesori sul fondo del mare.

 

I concetti di “immersione”, “profondità”, “oscurità”, “ricerca”, (ma anche “acqua” e “parametri vitali”) sono tutti dentro – non solo il lavoro ma –  il testo di Prometheus. Come mi disse Auretta il fantomatico “GIORNO UNO”, se Wunderkammer era il dramma del pensiero, questo è il dramma dell’azione. La prima cosa che mi ha colpito – e anche più incisivamente – è stato il rendermi conto degli infiniti, dico davvero, piani di lettura di questo testo in fondo molto asciutto. La prima cosa che ho pensato quando Auretta mi ha chiesto di tenere un diario delle prove, è stato un gioco del “chi è”: chi è Prometeo? Chi è Efesto? Chi è Zeus? Andando avanti col lavoro, si sono trovati davvero tantissimi aggettivi e tantissime personalità o ruoli molto diversi tra loro che si possono sovrapporre allo stesso personaggio. Ma anche per questo vi rimando agli “Appunti dalla Terra delle ceneri”!

Una considerazione che mi sento di fare, sinceramente, è che credo che questo particolare dramma sia di  enorme – e soprattutto immediata – comprensione da parte dei più giovani, mettendo in campo l’attualissimo confronto tra resistenza e adattamento a “l’aria del tempo” (si, Camus è onnipresente sopra me).

Allo stesso tempo, a mio avviso, ci fa pensare che i Prometei della nostra realtà dovrebbero essere un po’ più efestici, e gli Efesti un po’ più prometeici; che niente se è isolato dal resto ottiene risultati davvero incisivi; che “l’urgenza della vita è la vita stessa”; che ogni impulso dà il via a un movimento che poi si perpetua e riecheggia secondo regole da noi incontrollabili; che, dopo il legittimo spazio dell’incertezza e dell’analisi, c’è bisogno che venga innescata l’azione, perché se la vita resta in stasi, se l’umanità stagna, se l’uomo (o la donna) si stordisce da sé per preservarsi dal dolore, non ci si può aspettare un finale ma solo un vagabondaggio senza meta in una palude che prima o poi – forte delle bolle in cui ci isoliamo – inghiottirà tutto. Tutto quanto. E questo non deve accadere.