CONFRONTO TRA OPERE PAGANE

A CURA DI ANDREA ANSALDO

Il terzo appuntamento della rassegna Atto Unico. Scene di Vita, Vite di Scena, Caino. Homo Necans, è un’opera di riscrittura della celebre storia biblica nata dalla penna di Auretta Sterrantino. Lo spettacolo vive attraverso le performance di Michele Carvello (Abele) e Giacomo Lisoni (Caino), interpreti passionali e sanguigni del dramma che, in forme diverse, incarnano. La scenografia, ad opera di Giulia Drogo e riallestita da Valeria Mendolia, dona forma fisica alla tensione mortale dei due fratelli, immancabilmente sottolineata anche dalle musiche di Vincenzo Quadarella.
L’opera inizia con le solenni offerte di Abele e Caino e a seguire un coro che parla agli spettatori come agli interpreti. Il coro presenta i personaggi, ne tratteggia i lineamenti e ne anticipa le intenzioni, facendoci cadere nell’inquietudine dei due fratelli. Caino e Abele però di fraterno hanno ben poco. L’amore che li lega è un filo sottile destinato a sfilacciarsi sotto il peso dei loro gesti e del loro essere. È vero, Abele è biondo come il grano mietuto dal fratello, bello come la luce in cui cammina, ma non prova pietà alcuna per i vitelli che sacrifica; al contrario Caino è un uomo imbruttito dal lavoro nei campi e dalla propria infaticabilità, egli stesso prova orrore per se stesso, ma accudisce con amore la terra e i suoi frutti. Il contrasto fra i due fratelli diviene chiaro sin dai primi minuti, addensando l’aria dell’odore del sangue che da lì a poco scorrerà.
Come detto sopra, la scenografia svolge la sua funzione in modo efficace: in scena i due interpreti si muovono tra il grano e gli agnelli macellati, tra l’acqua che lava le mani e il viso dei due e i loro attrezzi che penzolano come impiccati, lordi di sangue e terra. In pratica in scena non c’è nient’altro che carne e sangue, pane e vino, e noi assistiamo alla transustanziazione: il grano di Caino e gli agnelli di Abele diventano il corpo e il sangue non di Cristo, ma di loro stessi.
La convivenza dei due fratelli si fa ancor più tesa quando iniziano ad accusarsi a vicenda: Caino parla di Abele come di un assassino, capace di uccidere agnelli con la stessa facilità con cui è capace di calpestare un fiore bianco cresciuto sul suo cammino; Abele invece vede in Caino un mostro deforme, i cui dubbi e riflessioni portano inevitabilmente lontano dal percorso tracciato da Dio. L’amore che sembrava legarli alla fine svanisce per fare spazio all’odio, alla diffidenza e, infine, alla morte.

Nella Genesi Caino viene indicato come il primo assassino, reo di aver ucciso il fratello Abele per l’invidia causata dal trattamento impari riservato da Dio. Entrambi i fratelli sono votati a Dio, ubbidienti e sudditi, ma i doni che Caino fa alla divinità non sono graditi quanto quelli di Abele; il primo porta le primizie della terra, l’altro immola agnelli sull’altare. Dio prova più volte a placare l’invidia di Caino invitandolo a non cadere nello sconforto, ma l’uomo non ascolta e finisce col bagnare il suolo col sangue del fratello. Dio quindi maledice Caino condannandolo a vivere una vita di lavori estenuanti e infruttuosi. La maledizione di Caino era talmente forte che chiunque l’avesse ucciso, privandolo dunque di quel che restava della sua vita amara, sarebbe stato a sua volta maledetto allo stesso modo. È una storia intimidatoria, che dà risalto al potere assoluto della divinità sull’uomo.
Ma nell’opera di Auretta Sterrantino ritroviamo la sfera umana della vicenda: i dubbi e le ansie di un uomo che non vede il frutto del suo sacrificio contro le contraddizioni di un suddito zelante e dalla fede incrollabile. Caino quindi vive nell’angoscia di non essere ascoltato, patisce il silenzio di Dio.

Quando, nel 1957, usci Il Settimo Sigillo, Bergman portava in scena esattamente questo genere di ansia, esplorandola anche in opere successive come La Fontana della Vergine (1960) e Come in uno specchio (1961). L’opera bergmaniana contiene più dubbi che certezze, specialmente sul piano religioso. Il Settimo Sigillo assurge a emblema del percorso tematico attuato dal regista svedese. L’intreccio del film ruota attorno a un cavaliere crociato che, di ritorno dalla guerra, s’imbatte nella Morte, la quale l’avverte della sua imminente dipartita.
Il cavaliere, nel tentativo estremo di rimandare il suo destino e poter così rivedere i suoi cari per l’ultima volta, decide di sfidare la Morte in una partita a scacchi. La partita si gioca a più riprese, scandendo il viaggio del protagonista, il quale sarà testimone di eventi sia gioiosi che tragici (memorabile, a tal proposito, una sequenza in un villaggio piagato dalla peste in cui si svolge una cerimonia).  Ogni evento allontana sempre di più il cavaliere crociato dal simbolo che porta sul petto, allo stesso modo di come Caino s’allontana da Dio ogni volta che sogna e che scruta nell’oscurità. In un’altra sequenza, ambientata nel monastero, si assiste alla confessione del cavalier crociato. Egli teme di avere un cuore ormai vuoto, privo di buoni sentimenti cristiani, allo stesso modo Caino crede di poter vivere solo nell’oscurità, l’unico ambiente adatto a lui. Due uomini svuotati dalle proprie esperienze e dal progressivo allontanamento da Dio, un allontanamento provocato dall’impercettibilità insita nella figura stessa di Dio. Qui interviene il prete confessore, di cui la Morte veste i panni, il quale alla richiesta del cavaliere di poter cogliere Dio e di potergli parlare chiede se il suo silenzio non sia già abbastanza eloquente. L’eloquenza del silenzio di Dio diventa quindi il motore trainante del dramma di Caino, i cui doni sono sgraditi e adombrati da quelli del fratello Abele. Già da questa visione è possibile ribaltare il messaggio autoritario del racconto biblico, in cui l’invidia è il movente del crimine, e osservare con una nuova prospettiva il ruolo di Caino non come carnefice, ma come vittima. Caino, di fatto, è un reietto ignorato da un Dio che, senza un motivo noto, gli preferisce il fratello. Caino intuisce che se le sue offerte, frutti della terra, vengono ignorate in favore di offerte di sangue allora il Dio a cui è votato preferisce la morte alla vita. Segregato all’ombra del fratello e ignorato da Dio, Caino trova sé stesso nell’oscurità, imparando a conoscerne le sfumature. I suoi sogni notturni diventano dubbi che non può ignorare e che non può non confidare ad Abele, così radioso e inondato di luce da non riuscire a comprendere il dramma del fratello.  La morte di Abele per mano del fratello nel finale assume quindi i risvolti della rivalsa dell’uomo nei confronti della divinità, di un’inafferrabile sovrastruttura.

Qualcosa di simile accade, per esempio, in Old Boy di Park Chan-wook. Nel film, datato 2003, un uomo viene rapito e segregato per quindici anni in una stanza da un aguzzino misterioso, potente e dalle motivazioni sconosciute. La prigionia di Dae-Su, questo il nome del protagonista, lo porta a maturare un ardente desiderio di vendetta nei confronti di quella che sembra più un’entità astratta che un uomo. Al termine della sua segregazione l’uomo si ritroverà a vagare all’interno di un mondo che ai suoi occhi non è più come lo ricordava, un mondo che ora sembra osservarlo, una “prigione più grande” rispetto alla stanza in cui ha vissuto per 15 anni. Non si può certo dire che Abele abbia tenuto segregato Caino, ma senza dubbio quest’ultimo sprofonda nell’oscurità, una prigione non meno soffocante di una piccola stanza. Ma Caino riemerge dal buio per uccidere, allo stesso modo Dae-Su sfugge alla morsa del suo aguzzino per vendicarsi. Caino giunge all’omicidio dopo aver superato i precetti cristiani, unica legge che conosce, similmente a come Dae-Su deve confrontarsi con tutte le risorse messe per arginare la sua avanzata. Ne viene fuori quindi che entrambi hanno combattuto per la propria vita uscendone vittoriosi, macchiati dal sangue di un sacrificio compiuto in nome della sacralità della propria vita. Anche se c’è da dire che, in questo parallelismo, la figura di Woo-jin, il rapitore di Dae-su, ricalca solo in parte la figura di Abele, assomigliando molto di più a un Dio autoritario; al contempo però, la morte di Woo-jin è il prezzo da pagare per la libertà.  Abele svolge la stessa funzione per Caino, tramutandosi, metaforicamente parlando, in uno degli agnelli sacrificali imploranti di pietà che egli stesso uccide.

Di fatto Abele ritrova la sua umanità solo nel momento della morte, dopo una vita passata ad adempiere sempre la stessa cruenta mansione affidatagli dal Dio che l’ha benedetto con la bellezza e la forza; lo stesso Dio che l’ha costretto a uccidere, privandolo nel tempo della pietà e della compassione, quindi della sua umanità. Abele viene addestrato a uccidere fino a diventare un’inesorabile portatore di morte. Per lo zelo con cui Abele agisce somiglia quasi al killer che insegue il protagonista di Non è un paese per vecchi (2007), dei fratelli Coen. Ma in realtà dentro Abele qualcosa ancora è vivo, solo che verrà fuori solo prima di subire il colpo letale. Da questo punto di vista sembra somigliare più al soldato Lawrence, alias “Palla di lardo”, di Full Metal Jacket (1987), film essenziale dell’opera kubrickiana. Kubrick è sempre stato attratto dalla rappresentazione della violenza e delle sue sfaccettature, come evidenziato da pellicole come 2001: Odissea nello spazio (1968), Arancia Meccanica (1971) o Shining (1980). Full Metal Jacket è un film molto violento, sia nelle sequenze ambientate nel campo d’addestramento sia in quelle in Vietnam. Se in quest’ultima parte la violenza della guerra è ben evidente, nella prima parte vediamo come essa s’insinua nella mente dei soldati, in particolare quella di “Palla di lardo”. Il ragazzo è in sovrappeso, poco atletico, poco incline all’ordine e ben presto si farà odiare da tutti a causa della sua inettitudine. Il senso d’inadeguatezza e le continue angherie perpetrate dai commilitoni e dal leggendario Sergente Maggiore Hartman, tramuteranno il soldato Lawrence in un automa insensibile, il marine perfetto. Man mano che “Palla di lardo” migliora le sue prestazioni perderà sempre più contatto con il suo lato umano, alimentato unicamente dalla scricchiolante amicizia con il soldato Joker. Dietro i suoi occhi non c’è più nulla, solo il vuoto. La storia del soldato Lawrence non si conclude in Vietnam come quella degli altri commilitoni, bensì nell’ultimo giorno al campo d’addestramento. Quella notte il soldato ritrova la sua umanità nel modo più cruento possibile: prima spara al suo addestratore e poi si suicida sotto lo sguardo attonito del soldato Joker. La rabbia di “Palla di lardo” è una rabbia sopita, ignorata e poi deflagrata. Allo stesso modo, Abele prima di morire chiede pietà, il sentimento che egli stesso per anni ha ignorato per poter compiacere Dio.

In due modi opposti, Caino e Abele si riprendono la loro umanità, ma ciò non toglie che siano entrambi vittime della divinità, fittizia o meno, a cui hanno dedicato vita e offerte. L’immutabilità dei loro destini ha condotto alla tragedia la storia dei due fratelli, incastrati in un disegno troppo sfumato per essere comprensibile, un disegno creato da un Dio che li ha osservati e guidati per autocompiacimento.   Abele e Caino sono quindi vittime di una macchinazione inimmaginabile, come fossero i protagonisti di un Truman Show, in cui Dio non è altro che la voce che fuoriesce da una luna finta.