IL TEATRO: UNO STRUMENTO POTENTE

INTERVISTA AD ANGELO CAMPOLO PER IL  CORTILE TEATRO FESTIVAL
a cura di Andrea Ansaldo e William Caruso

 

Questa è la tua prima volta in scena a Messina post Covid-19?
Sì, sono rientrato da Milano a giugno. È stato un periodo difficile e molto sentito.

Però non è la  tua prima volta in scena dopo la pandemia…
Sono stato in scena sia a Udine che a San Sepolcro, al Kilowatt Festival.

Come è stato ritornare sul palco dopo questo periodo di stop forzato?
Quando sei in scena ti muovi con degli automatismi, senza pensarci molto. A distanza di tempo, però, a Udine lo spettacolo è stato carico di un’emozione particolare. Quando vedi e capisci lo sforzo organizzativo, soprattutto in questo periodo, tutto ciò carica di maggiore importanza quello che fai andando in scena. Questo non deve snaturare il tuo lavoro, ovviamente.

Che impressione ti ha dato vedere il pubblico in questa sua nuova dimensione?
Sicuramente faceva strano vedere quelle distanze tra le persone ma, nonostante ciò, ho sentito il pubblico molto vicino e partecipe.

Il teatro, ora che si è ritrovato dopo l’emergenza Covid-19, ha guadagnato qualcosa?
Ti confesso che non saprei risponderti. È passato ancora troppo poco tempo.

Cosa hai fatto in casa durante la quarantena?
Ho creato delle dirette Facebook per chiacchierare. L’angoscia più profonda era data dal non sapere quando sarebbe finito tutto questo. Questa specie di urgenza e anche, nella circostanza specifica, questo problema legato alla categoria ha messo in mostra la fragilità di un settore che difficilmente riesce a essere unito. Politica e spettacolo secondo me oggi non riescono a parlare e c’è un problema da entrambi i lati. Dovrebbero trovare un punto d’incontro, a meno che non vogliano completamente distaccarsi, ma non credo sia possibile. Nel nostro sistema l’uno serve all’altro, per modi e obiettivi diversi.

Quali sono le basi del tuo percorso di attore?
La mia formazione è classica: sono un attore diplomato alla scuola del Piccolo di Milano con Luca Ronconi. Quel percorso, seppur a ostacoli, continua, nonostante la crisi del settore. Nel tipo di teatro che faccio mi piace aprire a un sentire rispetto a ciò che è contemporaneo, che mi accade intorno. Amo quel teatro che mi fa trovare un’esigenza, da pescare dalla vita che ho intorno. Non deve diventare modernismo, deve essere un fattore emotivo e di attenzione.

Da dov’è nata l’idea di Stay Hungry?
Questo spettacolo nasce da un percorso travagliato. Venivo da un triennio importante di lavoro con i migranti, a livello personale mi sono ritrasferito con mia moglie a Milano e si è concluso di conseguenza un ciclo a Messina. Ero nel solco di una prosecuzione di ricerca che mi ha portato a realizzare un primo studio intorno al tema della fame. Nel mio caso, il rischio è stato quello di affezionarmi a certe letture, perdendo un po’ la bussola. Per le letture e per i concetti, mi ero un po’ perso le persone che avevo incontrato. Ho fatto quindi dietrofront e ho cercato di andare all’origine di quello che mi aveva mosso questa curiosità. Questa storia ha un potere più universale, proprio perché più personale rispetto alla ricerca legata al cibo e ai grandi temi dell’immigrazione che ho affrontato all’inizio di questa ricerca.

Questo percorso dove sta portando l’Angelo artista?
Penso mi stia portando verso una maggiore incoscienza, verso una dimensione più intima e personale. Non ho paura di raccontare quello che vedo intorno attraverso il teatro. Attraverso le mie esperienze del passato, con la dovuta misura, sto provando a raccontare di più. L’Angelo autore prende il sopravvento e l’Angelo attore deve farsi un po’ da parte in questo.

Quanto il tuo studio sulla parola è cambiato dagli spettacoli con Ronconi a Stay Hungry?
Un tragitto c’è stato ma non posso assolutamente rinnegare il percorso con Ronconi e Branciaroli, dove la parola è azione. Mi ha aiutato molto perché lì la funzione dell’attore è quella di essere tramite per queste parole. Si parte proprio da queste e non dal personaggio e devi esserne strumento mobile, non fermo. Ovviamente è un’arma a doppio taglio, poiché rischi di diventare schiavo di un sistema. Bisogna trovare una sintesi in tutto questo.

A questo punto del tuo percorso, cosa è il teatro per te?
È il momento più emozionante di incontro umano e di conoscenza. Questo dà al teatro un valore alto, quello del confronto e della possibilità di aprire punti di vista, conoscenze non solo rispetto a quello che abbiamo guadagnato intorno a noi ma anche rispetto a quello che abbiamo perduto. Il teatro è un potente strumento, non un fine. Si consuma nel tempo e per questo non può stare nello schermo digitale. È un rito che dura nel tempo.

Parlaci delle musiche dello spettacolo…
Sì, sono delle musiche evocative, non molto presenti, tratte dai laboratori degli anni passati. Ci sono inoltre delle proiezioni/testimonianze proiettate sullo schermo. La struttura drammaturgica è suddivisa in piccoli capitoli e alla fine del capitolo nello schermo rivedi elementi del racconto orale che ci è stato, materiale d’archivio. Lo spettacolo evoca un po’ questo dissidio tra concetto e persona. La fame di cui si parla è la fame di uscire dagli schemi, dagli stereotipi. Queste storie non sono storie estreme, di guerra o di fame, sono storie quotidiane, che ci avvicinano un po’ di più a questo fenomeno. La funzione del teatro è sicuramente quella di staccarsi dagli stereotipi.  Finché non conosciamo le storie umane di questi migranti, per noi saranno sempre numeri e concetti.  Ci dobbiamo liberare della facilità di ragionare sugli stereotipi, per riscoprire la complessità della realtà.