…E INFINE TUTTO FINISCE

L’OSSERVATORIO CRITICO DI QA PER IL CORTILE TEATRO FESTIVAL 2021 – MESSINA
di William Caruso

Due uomini in un’osteria, un tavolo, un incontro tra sconosciuti. Con loro percorriamo una strada non illuminata, fatta di segreti e pensieri nell’ombra. Da qui parte La vita ha un dente d’oro, spettacolo scritto da Rita Frongia e diretto da Claudio Morganti, interpretato da Gianluca Stetur e Francesco Pennacchia, andato in scena nel cortile Calapaj-D’Alcontres.
Prendiamo posto, i due attori si trovano già nello spazio scenico. Ci cercano con i loro sguardi. Uno dei due indossa vestiti larghi dai colori autunnali e sembra malato, come suggerisce una fasciatura sulla testa; l’altro indossa una maglietta rossa e un pantalone nero. La luce a pioggia su di loro ricrea un’atmosfera notturna, abissale. Il senso dell’attesa è tangibile. A sala piena, entrambi si siedono. L’uomo con la maglietta rossa tira fuori un mazzo di carte e comincia a giocarci, mentre l’altro lo segue e partecipa con difficoltà ma divertito. L’azione naturale dei due, in una partitura fisica precisissima, diventa esasperata, atto ipercodificato di vita. Lo spettacolo è, difatti, tutto giocato sul meccanismo di verosimiglianza, sul famoso ‘patto tra attore e spettatore’: il teatro replica la vita e si fonda sulla consapevolezza che quello che vediamo non è reale.
In La vita ha un dente d’oro, questo meccanismo è un’arma puntata verso il pubblico, strumento reiterato capace di portarci fuori dal nostro campo protetto, facendoci provare uno smarrimento che è umano, verso quell’orlo estremo di codici e linguaggi dello spettacolo messi in scena con una precisione attoriale invidiabile. Ed è proprio questo meccanismo che riesce a tenere alta l’attenzione del pubblico, alla ricerca costante ma vana di un filo conduttore all’interno dello spettacolo.
I due uomini sembrano riconoscersi, hanno qualcosa in comune. Cominciano a dialogare in una lingua che sembra croato, si relazionano a un cane invisibile, ma in questa interazione la parola è irrilevante. È tutto l’apparato che la circonda che dà vita ai vari accadimenti: tonalità di voce, sguardi, movimenti del corpo, relazioni. Quello che prende forma, lìin quel momento, è quello che resta agli spettatori. Non importa neanche che un oggetto sia fisicamente presente: il gioco va oltre il materiale, mandando continuamente in cortocircuito la nostra ricerca di senso. In questo spumeggiare di azioni ripetute, enfatizzate e poi cambiate, l’uomo con la testa fasciata comincia a bere, servito dall’uomo con la maglietta rossa. I due uomini giocano sul cliché dell’ubriaco che sbiascica, su quanto certe cose siano prive di originalità nel loro essere esagerate. Il riso dei due attori si alterna alla loro serietà, goccia dopo goccia assistiamo a una lenta perdita di senso, fino all’esasperazione, quella che prova il pubblico, ormai stanco di cercare significati. Le difese della logica umana, così preponderante nella società di oggi, crollano grazie a questa sapiente costruzione.
In questa caduta del senso, qualcosa cambia: i due attori si riscoprono umani, piccoli nel parlare della Bellezza. Il pubblico è vicino, riesce a cogliere il primo piano dei due uomini, i loro occhi lucidi, i loro gesti. E si sente anche lui una piccola parte di questo dialogo profondo. I due parlano della Bellezza del Quadrato nero di Malevič, de I Tagli di Fontana; tramite le loro parole si va oltre l’estetica e la Bellezza diventa un concetto filosofico.
Lentamente una macchia di sangue si allarga sulla benda dell’uomo malato. Tutto sta per finire. L’uomo con la maglietta rossa lo accompagna, ci accompagna verso la fine. Sembra incarnare, con il suo discorso esistenzialista, lo scorrere inevitabile del tempo, lo sguardo magnetico della morte.

«Voi non sentite che mi sto avvicinando?»

La luce lentamente si abbassa e un assolo dissonante di chitarra chiude lo spettacolo. I suoi suoni sembrano fischi, sibili di un universo che si spacca, su un uomo accasciato su un tavolo di un’osteria.
È il buio, il silenzio.
Alla fine di questo viaggio ci si chiede che senso ha questa vita, che senso ha correre spediti in questo tempo che ci scappa tra le mani. Non si può raccontare esattamente quello che è successo, perché tutto ‘è’… e infine tutto finisce. Bisogna solo comprendere e accettare la nostra impotenza davanti al mistero. Possiamo tendere all’infinito verso la Bellezza ma non potremo mai incarnarla. La vita ha un dente d’oro lascia tutto questo: un senso enorme di impotenza e solo domande, scomode, pesanti, nude.

 «Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino in cui si aprivano tutti i cuori, tutti i vini scorrevano.
Una sera, ho preso la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara.»
Incipit di Una stagione all’inferno, A. Rimbaud

LA VITA HA UN DENTE D’ORO
con Gianluca Stetur e Francesco Pennacchia
ideazione e drammaturgia Rita Frongia
regia Claudio Morganti
produzione Esecutivi per lo spettacolo con il sostegno di Regione Toscana/Teatro il Moderno di Agliana
visto al CORTILE TEATRO FESTIVAL
diretto da Roberto Zorn Bonaventura
Castello di Sancio

Ph. Giuseppe Contarini – Fotoinscena