IL PARADOSSO DELLA FINZIONE

INTERVISTA A FRANCESCO PENNACCHIA E GIANLUCA STETUR PER IL  CORTILE TEATRO FESTIVAL 2021
a cura di Francisca M. ed Elena Russo

Giorno 20 luglio in occasione della replica de  La vita ha un dente d’oro  di Rita Frongia, diretto da Claudio Morganti nella suggestiva cornice del Palazzo Calapaj-d’Alcontres, abbaimo avuto modo di intervistare i due attori in scena: Gianluca Stetur e Francesco Pennacchia, i quali hanno generosamente risposto alle nostre curiosità.

Da dove è nata l’idea di esprimere la menzogna, l’artificio che si cela dietro ogni verità, tramite l’espressione idiomatica “la vita ha un dente d’oro” e renderla il fulcro dello spettacolo?
FP: L’idea è nata dall’intenzione di voler rappresentare la finzione nel paradosso per cui da essa viene alla luce una verità. Ciò che ha portato alla realizzazione di uno spettacolo del genere è la ricerca della peculiarità del linguaggio teatrale, che dal titolo appare abbastanza evidente: La vita ha un dente d’oro, un vecchio proverbio bulgaro, vuole fare intendere come ci sia finzione in tutte le cose della vita. Il titolo è un espediente, di cui usufruisce Rita Frongia, per esprimere il concetto di finzione ma è, in realtà, una sua invenzione che riconferma il tema dello spettacolo: da una finzione affiora una verità.

Come vi siete rapportati alla drammaturgia di Rita Frongia lavorando con Morganti?
FP: Noi ci conoscevamo già prima di fare questo lavoro, il rapporto era di familiarità. Lo spettacolo si è costruito attorno alle idee scritte e appuntate di Rita. Alcune parti dello spettacolo sono rimaste invariate fino alla fine, e altre parti sono state sottoposte alle prove dando spazio all’improvvisazione. Nel lavoro che si stava facendo ci abbiamo messo del nostro come attori da subito, con una grande sensibilità e cura da parte di Rita. Ci ha ascoltati, forgiando le sue idee con quelle che di giorno in giorno venivano fuori dalle prove, con l’aiuto della sensibilità di Claudio Morganti.
GS: Quando si lavora insieme e poi si va in scena, spesso capita di chiedersi quando si è lavorato, quando si è provato lo spettacolo: fra noi e loro c’è un’alchimia di leggerezza e di prose che si trova nel divertimento, e lavorare divertendosi è già un vantaggio nel riuscire. Divertirsi non significa necessariamente stare nel registro comico ma divertirsi nella recitazione. Se per lavoro si intende quella cosa che ti piace fare, che vuoi fare e che non ti stanchi mai di fare, allora si è lavorato eccome; se per lavoro si intende il sacrificio, la sofferenza, non si è lavorato per niente e ciò dipende molto dall’accezione che si dà a questo.

In questa ottica, come avete affrontato i personaggi?
FP: Senza porci questa questione dall’inizio, se non per delle suggestioni che volevamo lasciare sotterranee allo spettacolo, ad esempio la domanda del pubblico sull’origine dei nostri due personaggi.  Tali personaggi sono nati dal gioco teatrale: dalle idee scritte e dalle idee venute alla luce durante le prove. Lo spettacolo è fatto di diversi giochi che si succedono. Con giochi si intendono i giochi teatrali, basati quasi esclusivamente sul rapporto tra me e Gianluca, che si definiscono in base a ciò che viene fuori dai nostri dialoghi.
GS: Si parla del personaggio una volta fatto non prima, per provare a non inchiodarlo. Il personaggio si relaziona all’attore che lo interpreta e muta in base alle persone che lo interpretano. Una volta che si è capito il meccanismo si può fare di tutto.
FP: È un continuo giochetto, in cui il ruolo della regia, come mi ha ripetuto Claudio più di una volta, è quello di essere il più invisibile possibile. La sua maestria in questo ruolo è quella di fare da coordinatore: proprio Claudio ha fatto un lavoro di cesello e allo stesso tempo di sostanza.

Entrambi lavorate da parecchio tempo con Morganti: come si è evoluto il vostro percorso di ricerca assieme?
GS: L’incontro è stato casuale: io studiavo a Milano in una scuola privata e Morganti venne a fare un seminario. A seguito di diverse cene insieme cominciai a seguirlo. Successivamente conobbi Francesco perché Claudio ci chiamò per lavorare assieme, anche se, nel mio caso, non necessariamente per spettacoli ma anche per incontri di studio.
FP: Io, invece, facevo parte di un gruppo teatrale universitario che aveva uno scopo formativo, con il quale decidemmo di invitare dei maestri da fuori Siena e, nel 1997 o 1998, chiamammo anche Claudio Morganti. Facemmo esperienza trattando dei testi di Alfred Henry. Ricordo che Claudio ci fece vedere e toccare con mano le varie possibilità di fare teatro. Da allora siamo diventati compagni di viaggio. Successivamente coinvolse me e Gianluca in altri lavori e, in seguito a un’intesa teatrale, nacque la nostra amicizia.

Che tipo di formazione avete alle spalle e com’è stato condividere un bagaglio di esperienze diverse?
FP: Io ho cominciato con un maestro di teatro popolare che si chiama Bepi Monai, il quale tratta tutto ciò che riguarda il teatro di strada, la commedia dell’arte. Parallelamente ho seguito gli studi universitari in lettere moderne, musica e spettacolo laureandomi in Storia del teatro e, nel frattempo, mi sono interessato al linguaggio del corpo e all’espressività corporea: clownerie, mimo… Principalmente c’è questa matrice nella mia formazione, il teatro popolare.
GS: Io ho iniziato con la scuola Quelli di Grock a Milano. Lì ebbi come insegnante Claudio Orlandini e, sempre lì, ho seguito il seminario con Morganti e altri maestri. Mi occupavo anch’io di pedagogia, di formazione teatrale; ho insegnato anche a Grock e poi ho fondato una scuola a Milano, si chiama Campo Teatrale. Ho avuto la direzione artistica di un teatro e parallelamente, ho lavorato con Morganti, perché mi riconoscevo nella sua visione.

Dalle vostre prime esperienze a ora com’è cambiato il teatro per voi, anche per quanto riguarda il rapporto con il pubblico?
FP: Il rapporto quando funziona è sempre lo stesso: nasce nel momento in cui il tempo sembra fermarsi (cosa che caratterizza secondo me l’essenza del teatro) tanto da calarsi in un non-luogo, in un non-tempo. Da questo punto di vista non è cambiato niente, gli esseri umani sono sempre esseri umani. Dal punto di vista di quello che si può fare e che si fa, come in tutti gli altri ambiti della nostra società, io riscontro sempre meno libertà, sempre più ostacoli. Questa cosa non mi preoccupa, poiché noto che nonostante tutto nascono dei focolai, anche se poi si è costretti a chiudere come è successo a tanti piccoli teatri indipendenti; però dove ne muore uno, ne nasce un altro, perciò se c’è qualcuno che vuole bloccare il fermento popolare ancora non ci è riuscito. Questo non ha niente a che vedere con la speranza (termine verso il quale io nutro diffidenza), ma c’è una volontà e una forza vitale legata a una qualche poetica che non si può bloccare. Per me il teatro rimane un qualcosa di necessario per l’essere umano.
GS: Il rapporto col pubblico si sarà modificato di sicuro, ma perché sono cambiato io. Tra l’esperienza e gli anni trascorsi qualcosa è cambiato, ma non l’emozione.

Si ha bisogno di Maestri oggi?
FP: Sì, sicuramente sì. Non c’è bisogno di eroi ma di maestri sì…
GS: Bella, questa mi piace, ridilla.
FP: Non c’è bisogno di eroi ma di maestri sì!

 

Ph. Giuseppe Contarini – Fotoinscena