ANTICORPI TEATRALI: UN VIAGGIO NEL TEMPO CON MARIANO DAMMACCO

a cura di Elena Zeta Grimaldi

Quasi esattamente due anni fa, mi trovavo a Castrovillari per la XX edizione di Primavera dei Teatri. Una brezza di vento mi era arrivata all’orecchio, sussurrandomi che sarebbe presto arrivata la Piccola Compagnia Dammacco. Non sapendo perché non sapendo per come, ho contattato Mariano Dammacco e gli ho chiesto di prendere un caffè insieme per fare conoscenza. Ne è nata una lunga e intensa chiacchierata che, per un motivo e per un altro, è rimasta nel cassetto del mio computer per anni.
Quasi esattamente due anni dopo ci siamo incontrati di nuovo, in occasione della X edizione del Cortile Teatro Festival, che ha come filo conduttore i viaggi nel tempo. Entrambi abbiamo riletto la vecchia chiacchierata, e siamo rimasti colpiti da quanto i temi toccati fossero a un tempo distanti e permanenti nel presente.
In teatro, ormai lo so, non esistono le coincidenze: quando le linee s’incontrano è perché le traiettorie a spirale degli accadimenti lo richiedono. Spinti dalla curiosità e dalla voglia di dialogo, ci siamo ritagliati, tra una Fanciulla e l’altra, un piccolo spazio per continuare la nostra chiacchierata.

 

PARTE 1. UN CAFFÈ LUNGO TRA LE MONTAGNE
31 maggio 2019

A Primavera dei Teatri non si parla solo di spettacolo in senso stretto. Come ha sottolineato Valeria Bonacci all’inizio dell’incontro Il teatro della crudeltà contro il teatro del narcisismo, per questa XX edizione del festival ci tenevano «moltissimo ad avere una personalità come quella di Goffredo Fofi» il quale, spaziando nei diversi ambiti della cultura e della storia, tra dati e aneddoti come è suo segno distintivo, ha esposto una polemica (ma costruttiva) analisi dello stato della cultura: in molti periodi storici (si fa riferimento in particolare agli anni ‘60/’70, ma non solo) l’arte non aveva valore solo in quanto tale, ma soprattutto in quanto strumento di costruzione di coscienza critica, portatrice delle istanze della società o disvelamento delle criticità più nascoste di essa; ad oggi, molto più spesso di quanto dovrebbe, la cultura si fa invece portatrice delle istanze del singolo, che vuole – insensatamente più che con presunzione – restituire agli altri una parte o una visione di sé, in un continuo rimando di specchi che riflettono sempre la stessa immagine già conosciuta.
Passeggiando tra i luoghi di spettacolo e i luoghi d’incontro, ho avuto la possibilità di offrire − anche se, alla fine, mi è stato offerto senza possibilità di replica − un caffè a Mariano Dammacco, fondatore della Piccola Compagnia Dammacco, che, insieme a Serena Balivo e Stella Monesi, porta avanti uno dei percorsi artistici più “sorvegliati” del panorama teatrale italiano. Da un semplice caffè è nata un’intensa e piacevole chiacchierata, che, partendo dai concetti espressi da Fofi (con cui Dammacco ha diverse volte collaborato) ha deviato varie volte prendendo strade impreviste, parlando di teatro italiano, filosofia coreana e… anticorpi culturali!

 Avete partecipato a Primavera dei Teatri l’anno scorso con lo spettacolo La buona educazione, che è stato uno degli spettacoli più acclamati del festival. Adesso siete di nuovo qua, senza avere uno spettacolo. Cosa siete venuti a fare?
Siamo qui a studiare. Nel senso che abbiamo da pochi giorni scoperto che come disponibilità di tempo e possibilità di movimento potevamo venire a Castrovillari a concederci tre giornate in cui credo che riusciremo a vedere sette o otto spettacoli di altri artisti.

Possibilità che è la grande importanza dei festival, non solo per chi non ha il tempo di muoversi, ma soprattutto per chi vive in posti dove non circolano molti spettacoli, e per forza di cose tende ad avere una visione più ristretta di quello che accade in questo mondo.
Esattamente. Inoltre le partecipazioni ai festival con il proprio spettacolo spesso sono legate a delle economie. Ad esempio, se io vengo a fare La buona educazione e ho un furgone a noleggio, è chiaro che arrivo il giorno prima, monto, faccio spettacolo, e poi corro via: di fatto, del festival percepisco soltanto il mio lavoro. Allora t’inventi che gli anni dispari, quando noi non produciamo − perché sta capitando, curiosamente, di produrre tutti gli anni pari −, almeno cerchiamo di fare gli spettatori.

Tante volte gli artisti si dimenticano di questo aspetto. Capita più spesso di quanto dovrebbe che nel momento in cui si comincia a fare teatro non si va più a vedere teatro.
In parte, molte donne e uomini di teatro, una volta che hanno il loro percorso, sono talmente presi nei tempi e nelle rincorse (o hanno difficoltà economiche) che diventa un po’ difficile vedere gli spettacoli. Se invece parliamo di qualcuno a cui passa la voglia, l’interesse, o la curiosità… non ce ne interessiamo. Per me, devo dire che è rimasto da sempre un piacere andare a vedere il teatro degli altri e credo di essere riuscito addirittura a mantenere vivo in me lo spettatore: quando la mia sensibilità me lo fa accadere, riesco a ridere e addirittura a piangere agli spettacoli degli altri. Credo di riuscire a non essere soltanto un uomo di teatro che sta lì con una testa ‘analitica’ o ‘di studio’.

Bisognerebbe cercare di restare sempre aperti, operatori e spettatori, perché in fondo il teatro – ma tutte le forme d’arte, in generale − dovrebbero avere l’obiettivo di creare uno scambio continuo di personalità, di immedesimazione nell’altro lontano da sé. Mentre tante volte nel nostro tempo, come diceva Goffredo Fofi, si tende a fare quello che lui ha chiamato ‘Teatro del narcisismo’, ovvero una cosa che è sempre riconducibile a te stesso, che parte e arriva a te stesso, e che poi, oltre al bell’artificio scenico, la cosa che piace lì sul momento perché è una novità, lascia ben poco a te che guardi.
Il tema ‘narcisismo’ è legato in qualche modo a tutta la comunità in cui viviamo, e quindi il teatro non ne è esente. Anche i maestri dei nostri mestieri – dove si vive di una necessità particolare, di chissà quali strani incastri dentro se stessi per cui si finisce a fare proprio questo – ce lo insegnano: Stanislavskij diceva «Imparate ad amare l’arte in voi stessi, non voi stessi nell’arte», il tema deve essere l’arte e non, appunto, il proprio ego. Credo che questo scivolare sempre più nel territorio dell’ego, del narcisismo, sia complessivo, e che la nostra comunità teatrale in qualche modo lo rispecchi, lo riproponga come accade in maniera generale. Non so se abbiamo una colpa in più, cioè se come comunità di teatro dovremmo avere una maggiore consapevolezza, dovremmo avere la capacità di sorvegliarci maggiormente che altri pezzi della comunità.

Da un lato, dicevamo, bisognerebbe cercare di catturare l’altro da te, andare da lui e farlo avvicinare, che è un processo empatico, qualcosa che non ha delle regole precise; dall’altro lato il mestiere impone delle regole ferree. È un’antitesi strana, che alle volte si sottovaluta. Qualcuno potrebbe pensare che le regole passano, s’infrangono, e quindi si possono tralasciare fin dall’inizio.
È un tema fondamentale: la necessità di dire qualcosa agli altri è un diritto di tutti, e anche il poter praticare il dire qualcosa agli altri (lo chiameremo la ‘libera espressione’) è un diritto di tutti; ma se vogliamo parlare di artigianato o arte, la libera espressione non ha più diritto d’essere e deve essere una espressione mediata dalla consapevolezza di tecniche. Quando siamo davanti alla vetrina di un artigiano che fa, per esempio, statuette di terracotta, è chiaro che lui può avere tutta la necessità del mondo, tutti i pensieri e i sentimenti più interessanti e universali da condividere con gli altri, però è altrettanto chiaro che le sue statuette sono quel che sono perché lui sa scegliere i materiali, sa maneggiarli, sa usare le proporzioni… sono mestieri. L’artigianato (che poi, nei casi più felici, diventa arte) non può prescindere da una grande, grandissima, rigorosa consapevolezza, padronanza e utilizzo di elementi di sapere tecnico.

A cosa potrebbe portare questo crescente oblio della tecnica?
Una cosa a me è molto chiara: credo che su questo sia accaduta una certa mistificazione, cioè si sia finiti con mettere talmente tanta attenzione sul fatto che si ha diritto a esprimersi che è nato un malinteso che danneggia in prospettiva medio-lunga i giovani artisti, aspiranti artisti, cuccioli di artista. Se non studi più di tanto le tecniche, quando il ‘fior di giovinezza’ (così dicono i poeti) svanirà, non avrai sedimentato il ‘fior di maestria’, ed è lì che cominceranno i guai. Perché un’opera prima, la nascita di una nuova compagnia, la necessità dirompente di un artista di venticinque anni hanno una potenza che fanno efficacia; quello che accade è che poi, ovviamente, per fare un secondo, un terzo, un quarto spettacolo, e per sviluppare un intero percorso di vita nel teatro, se non ti attrezzi (anche secondariamente, pian piano) di elementi di mestiere e di un sapere, il rischio è che a un certo punto ti chiedi perché quello che una o due volte ha funzionato, non sta funzionando più.

 E quand’è che uno spettacolo ‘funziona’?
Secondo me la questione è senso o non senso. In mille modi si può arrivare a un oggetto d’arte, a uno spettacolo teatrale coerente con se stesso, ma in mille modi nei nostri mestieri − e non mi tiro fuori − c’è il rischio che il tuo oggetto d’arte, il tuo spettacolo o un attore sulla scena e le sue parole e il suo gesto non abbiano senso. Quando quello che ti mette in moto è il narcisismo, è chiaro che l’azione che stai compiendo è sostanzialmente onorare te stesso, di quell’azione puoi essere totalmente soddisfatto, ma poi c’è da vedere cosa è successo fuori, se hai fatto ‘accadere il teatro’. Per me è una questione legata al senso, alla necessità, sempre mediati da questioni tecniche. Se faccio un oggetto d’arte perché voglio essere un artista, o faccio un oggetto d’arte perché qualcosa bussa dentro di me, a quest’età mi sono fatto l’idea che nella seconda ipotesi probabilmente si lavora su un percorso di necessità, nella prima, probabilmente, siamo allo specchio − per usare sempre l’immagine di Narciso.

È una tendenza propria del nostro tempo, quella di “monologare” sempre con la nostra immagine, evitando il confronto, a discapito della consapevolezza dell’esistenza de l’altro.
Forse una cultura “crudele”, un “teatro crudele” è anche quello che ti sbatte in faccia (a te, operatore e spettatore) il fatto che esiste l’altro, che tu non sei esattamente come ti vedi allo specchio, o come ti vorresti vedere.
Mi fai venire in mente il libro di un filosofo coreano, Byung-Chul Han, La salvezza del bello [ed. Nottetempo, 2019, N.d.R.] . È un libro che sto rileggendo continuamente in questo periodo, e quando lo leggo penso che quello che io certe volte ho la sensazione di intuire, di pensare, quest’uomo lo sta nominando in maniera molto chiara. Il libro da cui sono ossessionato in questa fase, mi viene in mente perché una delle distinzioni di questo filosofo è tra la ‘levigatezza’ dell’oggi e la ‘ruvidità’ del reale. Lui dice: noi viviamo in un tempo dove, a partire dalla questione del tatto sugli schermi con cui continuamente tocchiamo, fino al fatto che l’altro interlocutore perlopiù è la sua foto dentro uno schermo, ci scambiamo un’esperienza di vita ‘levigata’, cioè senza il negativo, senza il critico, senza il conflitto. Ovviamente questo principio generale rischia di entrare nel mondo dell’arte. Noi diciamo, garbatamente, rischia di entrare, il nostro filosofo coreano ci spiega come è entrato nel mondo dell’arte. Ad oggi, l’oggetto d’arte è molto spesso, ancor prima che oggetto d’arte, oggetto di produzione nel sistema economico in cui siamo organizzati in tutti i settori.

Pensi che si sia un po’ persa questa cultura o arte “della crudeltà” (nell’accezione che ne ha dato Fofi, contrapponendo “teatro della crudeltà” a “teatro del narcisismo”, a detta sua per «fare incazzare un po’ di gente»)?
In qualche modo la bellezza ha perso il suo sublime, perché il sublime secondo questo filosofo (e non solo) è la parte negativa, la parte critica, la parte dolorosa della bellezza. Ma è quindi la parte di senso della bellezza. Probabilmente in questo momento storico tutto deve essere levigato, è come se ci fosse un’abitudine (non parlo solo di noi che lo facciamo, il teatro, ma anche degli spettatori), un maggiore agio davanti a eventi di spettacolo che, tutto sommato, non vanno a compiere la vera funzione dell’arte, punto. Che è quella non solo di farti la carezza o darti un momento per passare il tempo, ma di farti portare a casa un fastidio, un elemento critico, un disagio con te stesso, un pensiero.

Da questa ossessione pensi che potrà nascere un futuro progetto, in questo anno dispari in cui non si produce?
Io spero di sì. Quest’anno abbiamo fatto un anno dispari rivoluzionario, che abbiamo organizzato con anticipo: compiuta la Trilogia della fine del mondo che è stata lentamente il momento fondativo della compagnia (poetica e tecnica, estetica, nascita e incontro con l’ambiente del teatro italiano), dopo circa dieci anni di lavoro sostanzialmente Serena Balivo e io, io e Serena Balivo − con l’ausilio di Stella Monesi, però la ricerca in sala rispetto a un percorso siamo stati Serena ed io − ci siamo detti che era il momento di aprire le finestre e incontrare altre attrici e altri attori. Perché il percorso d’artista di Serena come attrice potesse continuare e non specializzarsi – perché mai avrebbe dovuto farlo? – nella forma di monologo, di assolo, e perché io stesso come compositore − a me piace questa parola, quindi drammaturgo e regista insieme − potesse avere un’orchestra di corpi, di voci, di volti, di attori, di sensibilità.

E cosa avete macchinato?
Abbiamo organizzato un progetto che abbiamo chiamato Finestre, proprio perché, man mano che ce lo raccontavamo tra noi, Serena e io, e poi ad alcuni interlocutori privilegiati che ci consigliano (penso a Fabio Biondi che dirige l’Arboreto, al professor Gerardo Guccini del DAMS di Bologna), questo dire «Dobbiamo aprire le finestre» ha fatto sì che quando ho dovuto produrre il materiale per chiedere alle residenze di ospitarci, il progetto si sia chiamato Finestre. Le residenze che da dieci anni ci ospitano per produrre gli spettacoli quest’anno hanno avuto il merito ancor più straordinario di volerci – bontà loro – ospitare semplicemente per studiare e condividere le tecniche e la poetica della compagnia con altre attrici e attori. Quello che sta accadendo in Finestre sta accadendo: noi lo stiamo vivendo veramente.

Avete lavorato su qualcosa in particolare?
Abbia fatto tre tappe, tra qualche giorno inizierà la quarta e ultima, e in queste tre tappe è accaduto di tutto. Per dover lavorare con degli attori bisognava dargli un contenuto, non dico un testo, ma non possono lavorare sul nulla. Abbiamo scelto l’elaborazione del lutto, del lutto amoroso, ed è nato già uno scenario di contenuti. Sono accadute delle cose importantissime che io credo detteranno l’agenda della compagnia non solo il prossimo anno − sperando che tra un anno si possa arrivare a uno spettacolo. Anche perché noi costruiamo per trilogie, che riteniamo un territorio di ricerca precedente, preesistente e più ampio di quello del singolo spettacolo.

Cosa state traendo di importante, da questo esperimento di Finestre?
Innanzitutto Serena è felicissima, e io voglio raccontartelo: perché una donna che da dieci anni vive il suo panico da sola – e questo va premiato, va premiato molto – non era scontato che si trovasse a suo agio. Serena è felice, e secondo me sta facendo un altro salto di qualità, lavorando sulla scena con gli altri. Con alcune delle persone che stiamo incontrando (penso anche ad attori fatti e compiuti, a Roberto Marinelli o a Ksenija Martinovic, e non solo ai più giovani) sta nascendo un innamoramento reciproco.

 Quindi dobbiamo aspettarci qualcosa di insolito, per il prossimo anno pari?
Sta nascendo l’evoluzione della lingua di espressione della compagnia: il lavoro di Serena e mio, incontrando altri attori, sta facendo crescere in maniera esponenziale il tratto di ‘attrice che danza’ – vogliamo dire così? −. Serena non è una danzatrice e i nostri spettacoli non sono di danza, però se penso a L’inferno e la fanciulla c’è di fatto un corpo che danza, non siamo nel territorio del corpo naturalistico, della verosimiglianza, di un certo tipo di prosa o del cinema. Moltiplica questo per nove o per dodici corpi, guadagnaci le possibilità dello spazio: quello che per Serena è gestografia, comincia a diventare coreografia, quello che con Serena era un’attrice che danza inizia a diventare una forma di teatro − lo dico con pudore, però qualcuno che è venuto a spiarci dice – che è già un territorio di teatro danza, addirittura.
Questa esperienza di Finestre l’abbiamo voluta, ci sta cambiando, e penso nutrirà almeno i prossimi tre-quattro anni della compagnia.

E io penso che, con l’apertura di Finestre e il confronto tra diverse sensibilità, la ‘ruvidità’ del reale, e il venire ai festival per studiare ancora, abbiamo trovato una medicina possibile a questo ‘Teatro del narcisismo’. Anzi, più che medicina chiamiamoli anticorpi: qualcosa che è già insito nell’organismo e, nel momento in cui la malattia avanza, entra in attività per combatterla.