SIAMO TUTTI DISSENNATI

INTERVISTA A  RINO MARINO | OSSERVATORIO CRITICO 2021
a cura di Andrea Ansaldo

La sera del 30 luglio scorso, in occasione della presentazione del volume Tetralogia del dissenno e della replica al MuMe (Museo regionale di Messina) di Orapronobis, interpretato dall’attore Fabrizio Ferracane, abbiamo avuto il piacere di dialogare con Rino Marino, regista e drammaturgo, dello spettacolo e del ruolo del teatro nei percorsi terapeutici dei pazienti psichiatrici.

Come nasce Orapronobis?
Un po’ come tutti i miei testi nasce in modo casuale, quasi improvviso. La genesi di Orapronobis è molto singolare: mi trovavo per strada, a un semaforo a Roma, e improvvisamente – non che io abbia allucinazioni − si materializza questa figura, questo povero diavolo che si prostra ai piedi di un’autorità ecclesiastica e inizia a implorare perdono. Questo incipit l’ho quasi visto e sentito, quasi come un canto, un rosario profano che andava crescendo come una musica. Comincia con una  preghiera di implorazione che poi man mano si va trasformando, attraverso una serie di imprecazioni, in un attacco politico molto violento, molto forte e feroce nei confronti del potere ecclesiastico di una certa Chiesa o di tutta la Chiesa.

Come nasce il processo drammaturgico di quest’opera e delle precedenti? Ci sono linee comuni?
Sì, c’è una poetica comune che parte da un lavoro e da un interesse costante nei confronti di soggetti diseredati, emarginati, disturbati. Mi rivedo molto in quella visione pirandelliana del personaggio che bussa alla porta dell’autore. Potrà sembrare retorico ma spesso avviene proprio così. I personaggi possono nascere da un gesto, da una frase, da un ricordo, da un’emozione e poi cominciano a svilupparsi con tutta la loro urgenza di essere definiti e a prendere corpo fino a diventare quasi creature vive, materiche, quasi esistessero realmente, nella vita di tutti i giorni. Anche gli oggetti, i costumi, gli odori della scena diventano un tutt’uno, un corredo indispensabile al completamento del personaggio stesso.

Lei si occupa anche di teatroterapia. Cosa s’intende? Come funziona il processo terapeutico?
La teatroterapia è una vera e propria forma di riabilitazione psichiatrica, riconosciuta in tutta la sua valenza terapeutica, che consiste nella messa in scena di uno spettacolo teatrale con pazienti psichiatrici;  li aiuta a orientarsi nel tempo e nello spazio, nella gestione del Sé corporeo, nella capacità di astrazione e di simbolizzazione, e a responsabilizzarli finché lo spettacolo non sarà allestito e mostrato al pubblico. Abbiamo messo in scena lavori teatrali e cinematografici, prevalentemente con pazienti psichiatrici non completamente scissi dalla realtà, cosa fondamentale per il processo terapeutico. Il fine è la riabilitazione, il bene del paziente, poi il risultato estetico deve esserci, altrimenti non avrebbe senso fare una rappresentazione pubblica. Ci sono nomi illustri come Ciprì e Maresco, con cui ho collaborato per un breve periodo, che hanno lavorato con pazienti psichiatrici anche gravi, nei loro film. Io, da psichiatra, devo pormi il problema della riabilitazione e, quantomeno, di non nuocere in alcun modo al paziente.

Come dialogano le professioni di psichiatra e autore teatrale?
Non colgo discrepanze tra le due cose. La psichiatria ha molto a che fare con l’animo umano, con gli istinti e le passioni, con la sofferenza  e la perdita, con la follia, tutte cose che sono familiari anche al teatro. Per quanto mi riguarda, c’è una forte aderenza tra le due attività. Anzi, credo che si completino e supportino a vicenda, perché il teatro fa bene alla psichiatria e viceversa. Molti attori sono disturbati e in qualche misura lo siamo un po’ tutti. Ne conosco pochissimi assolutamente sereni, in alcune messe in scena si arriva a soffrire con crisi di pianto, scatti d’ira, proprio perché il teatro è qualcosa che scava nel profondo e che può pertanto diventare catartico o devastante. Parlo degli attori professionisti.

Come si affronta il processo di lavoro con i pazienti?
All’inizio si fa una selezione, per comprendere se il paziente possa trarre giovamento o aggravarsi nel percorso terapeutico. Poi, in base alle caratteristiche di ognuno, si affidano i vari ruoli in modo anche di valorizzarne le disabilità, perché diventino delle risorse. Un paziente che ha un certo modo bizzarro di muoversi, o che ha difficoltà nell’eloquio dev’essere valorizzato nella sua diversità in modo da farlo rendere al massimo e di esaltarne l’unicità. Aggiungo che non ho mai fatto lavorare dei pazienti su dei testi teatrali miei, (alcuni hanno recitato in miei lavori per il cinema) ma su altri come La sagra del signore della nave di Pirandello, in siciliano, o La Giara, che ho tradotto io stesso, perché pensavo che il dialetto fosse più congeniale a persone vissute in Sicilia e dalla cultura modesta .

Orapronobis fa parte della Tetralogia del dissenno. Per uno psichiatra, cosa s’intende per ‘senno’?
Normalità e anormalità sono due concetti sfuggenti, la linea di demarcazione è molto sfumata, per questo è difficile stabilire cosa sia normale e cosa no. Alcune gravi patologie psichiatriche comportano una destrutturazione  della psiche in tutte le sue sfere, soprattutto in quella del pensiero, con deliri e bizzarrie di diversa natura, ma anche della percezione e quindi allucinazioni. In questi casi si ha a che fare con soggetti seriamente disturbati. Ma anche le  persone apparentemente normali spesso presentano, chi più chi meno,  disturbi di personalità, disturbi d’ansia, ossessioni, fobie. Per senno non si intende aderire ai canoni di normalità imposti dalla società, ma avere una certa stabilità, non delirare, non avere credenze personali infondate, essere “ragionevoli” avere un buon funzionamento sociale e non costituire un pericolo per sé e per gli altri. Poi siamo tutti dissennati. Ci sono stati grandi artisti, grandi poeti, francamente psicotici. Penso a Hölderlin, schizofrenico, ma capace di scrivere poesie di un equilibrio e di una lucidità sorprendenti.

C’è una specie di mitizzazione dell’artista tormentato e psicotico, una mitizzazione un po’ naif e forse anche dannosa…
Nella mia esperienza ho incontrato pochissimi artisti veramente sereni ed equilibrati. Penso che il disagio, in senso lato, sia una condizione, se non necessaria, quantomeno predisponente alla creatività artistica. Chi è davvero sereno e appagato, probabilmente propenderà per qualcosa di diverso . Magari sbaglio, magari sono stato sfortunato a incontrare artisti, e non solo artisti, problematici. Quantomeno gli artisti riescono a canalizzare energie negative o deleterie in un processo creativo.