GIOTTO UNA TRAGEDIA ITALIANA

INTERVISTA A G. PROVINZANO PER IL CORTILE TEATRO FESTIVAL 2021
a cura di Francisca M.

Il 5 agosto all’Area Iris di Ganzirri, abbiamo avuto modo di intervistare Giuseppe Provinzano, in occasione della replica per Il Cortile Teatro Festival di GiOtto studio per una tragedia, spettacolo da lui stesso scritto e interpretato.

 

Come è nata la compagnia Babel?
È nata dallo spettacolo GiOtto (2009) grazie al quale poi decidemmo di fondare Babel. Il triennio magico di questo spettacolo fu il 2009-2011, in quel triennio abbiamo fatto più di cento repliche e, nell’estate del 2011, abbiamo cominciato a ragionare sul fondare la compagnia che poi nacque qualche mese dopo a fine 2011.

Siete stati nel cartellone del Cortile teatro Festival anche lo scorso anno con un altro spettacoloCosa è cambiato da allora?
Ci stiamo abituando al teatro che fa fatica. Quello che ci dicevamo l’anno scorso era che il teatro esiste da duemilacinquecento anni e probabilmente continuerà a esistere e questo anno così faticoso ci dà conferma che non morirà.

Da cosa è nato questo spettacolo?
Io lessi un libro di Concetta De Gregorio, Non lavate questo sangue, in cui l’autrice parlava di quello che avvenne alla Diaz [scuola genovese tristemente famosa per i fatti violenti avvenuti il 21 luglio 2001, ndr] per poi aprire un discorso politico sull’Italia. All’inizio di quel libro lei usò delle frasi che però non sviluppò perché andò in un’altra direzione, ed è proprio con una di quelle che inizio: «Genova città simbolo della tragedia moderna che è stata, che è e che sarà come Tebe e come Troia». Io sono stato a Genova e ho assistito ai disordini, avevo 19 anni, lessi quelle frasi e capii che si poteva raccontare quella storia come se fosse una tragedia, raccontare anche l’irrappresentabilità di questa tragedia che questo lavoro vuole, fare quel passaggio successivo che avviene in ogni storia: prima la racconti e poi la metti in scena. Questo lavoro è stato scritto per un coro ma io lo metto in scena da solo per raccontare quanto ancora sia difficile, quanto ancora non sia il momento, ancora non siamo pronti, ancora non ci siamo distaccati così tanto dall’accaduto.

Come è strutturato lo spettacolo?
C’è un prologo: ricordo e un po’ rappresento il momento nel modo in cui veniva raccontato dalle televisioni. C’è un eroe e un antieroe: un ragazzo morto che è diventato vittima e un ragazzo che è diventato un assassino. Ci sono i Black Bloc; gli otto re che hanno deciso di passare un bel weekend e c’è tutto quello che non abbiamo potuto vedere, quella sorta di messaggero macabro che ci racconta quello che è avvenuto nella caserma di Bolzaneto. Seguendo questa struttura della tragedia e aiutandomi con la struttura della tragedia greca, è nato il testo e poi, con Gabriele Gugliara che cura i suoni, abbiamo creato una drammaturgia sonora poiché pensavamo che sentire l’audio di quei giorni potesse essere impattante per rivivere parzialmente un’emozione. Una delle cose che abbiamo deciso fin da subito è stata quella di escludere le immagini, poiché con le immagini crei una distanza mentre con il suono si riesce a fare un lavoro differente da un punto di vista emotivo ed empatico.

Tu eri presente. Che esperienza hai avuto e come l’hai inserita nello spettacolo?
Io nello spettacolo ho messo poco della mia esperienza personale perché avevo 19 anni ed è stata un’esperienza abbastanza traumatica e anche molto incosciente e inconsapevole. Sono andato lì come tantissimi altri ragazzi poiché immaginavo che quello fosse un momento di importanza storica, era una grande manifestazione. Però siamo stati tutti colti di sorpresa perché non immaginavamo quella violenza, non immaginavamo quanto potesse essere premeditata. Ho studiato tanto, ho visto tanti documentari fino a quando non ho chiuso tutto e ho scritto senza consultare più niente.

Oggi qual è la tragedia che ancora ci portiamo dopo quei giorni lì?
Quest’anno abbiamo deciso di riprendere questo spettacolo per i vent’anni del G8 e di fare questo tour di venti date in venti regioni chiamandolo Un bivio lungo vent’anni perché io penso che lì il mondo abbia deciso di prendere una strada piuttosto che un’altra, quello è un bivio importantissimo del nostro secolo. All’inizio del Ventunesimo secolo, si è deciso che bisognava andare verso la globalizzazione finanziaria piuttosto che verso la globalizzazione dei diritti. Oggi, dopo vent’anni, siamo frutto di quella decisione. Il motivo per il quale finisco lo spettacolo con la canottiera bianca, il nastro al braccio, iconograficamente ricordando Carlo Giuliani, non è soltanto per una retorica dell’immagine, ma perché io potevo essere Carlo Giuliani. Se mi fossi trovato nel momento sbagliato, nel posto sbagliato potevo essere io. Tantissimi ragazzi potevano essere Carlo Giuliani. Poi il destino, la tragicità di Genova, volle che a morire fosse un ragazzo italiano e genovese che rese la cosa ancora più “epica”. Tutti ci siamo chiesti in questi anni che cosa sarebbe successo se fosse stato un ragazzo straniero e ci siamo fatti questa domanda perché non è un caso che si siano fatti i processi per la Diaz e Bolzaneto e quello di Carlo sia stato relegato come un affare italiano.

Come credi che sia cambiato il tuo modo di approcciarti allo spettacolo in tutti questi anni?
Quest’anno abbiamo creato un progetto puntato sul far girare questo spettacolo; penso che questi temi siano importanti soprattutto oggi. Più si va vanti, più vedere ragazzi che non erano ancora nati o erano troppo piccoli per ricordare, aiuta lo spettacolo ad acquistare un’importanza politica maggiore.

 

Ph. Giuseppe Contarini – Fotoinscena