IN ROTTA PER «LO GRAN MAR DE L’ESSERE»

L’OSSERVATORIO CRITICO DI QA PER MINIMA MENTE BLU
di Maria Cristina Cannavò

Il penultimo appuntamento del Cortile Teatro Festival 2022 si è tenuto il 17 settembre, presso l’Area Iris; in scena l’ultima creazione di QA, Minima Mente Blu. Accordi sintetici per una nudità d’essenza, scritto e diretto da Auretta Sterrantino.
Il pubblico, seduto in semicerchio intorno al palco a forma di ‘T’, ha subito avuto modo di notare l’attrice Giulia Messina, interprete della giovane protagonista dello spettacolo, Sibilla. Apparentemente vincolata in uno spazio angusto − delimitato dal perimetro del palco che ha inaspettatamente iniziato a tracciare sinuosamente, con le proprie movenze − Sibilla porta su di sé la tara ereditaria della tensione all’oltre, trasponendola in scena nell’illusione di vedere disegnati spazi che divengono, agli occhi dello spettatore, piacevolmente interminati dilatati dalla lente della precisione d’esecuzione dei movimenti, che, intensi e sempre identici, suggeriscono all’immaginazione la rimembranza di sapore leopardiano di quanto senza confine si è visto in passato.
Dopo qualche istante, l’evocazione di immagini apparentemente fuori contesto, frutto di una fervida immaginazione − «una libellula», «due gnomi seduti mani contro mani», «un orologio a pendolo», «un pipistrello», «cavallucci marini» e un arcano pozzo − rompe il silenzio, generando un turbine intricato, indecifrabile, soffocante e minaccioso. Mera quiete dopo la tempesta, solo il ricordo di un’infanzia felice in compagnia della sorella Xenia rasserena Sibilla, trasferendola in un vagheggiamento destinato ad avere un’effimera durata. La consapevolezza che l’armonia dell’essere in due si è da tempo incrinata prende, infatti, il sopravvento, lasciando spazio a un’inestinguibile nostalgia e a una solitudine glaciale, fredda quanto può esserlo un calcolo matematico: da due a uno, alla sola Sibilla, che − spacciata − non ha neanche avuto il tempo di razionalizzare la scissione, l’abisso incolmabile creatosi tra presenza e assenza, tra il vivido e lo spento. D’altro canto nessuno è mai pronto a un distacco improvviso, nessuno lo vorrebbe mai accettare, a dispetto del cinismo che la logica del mondo vorrebbe propinare quale rimedio alla vita, per autoconservarsi, ‘sopravvivere’ o, meglio, vivacchiare. Le strade delle due sorelle si sono divise ma, al dolore che ha naturalmente accompagnato il distacco dalla propria metà, Sibilla ha coraggiosamente opposto la lucentezza del percorso subito dopo intrapreso: l’assenza di Xenia ha rallentato il metabolismo di Sibilla, svilendo ogni desiderio di azione e reazione, fuorché la volontà di cercarla ma questa ricerca è finita per combaciare con la ricerca dell’Arte, al servizio di due Maestri autorevoli e autoritari, Kappa ed Esse. Sotto il loro alto patrocinio, Sibilla ha appreso docilmente a seguire attivamente la combinazione sacrale di musica e colore, di note e gradazioni cromatiche, riuscendo a perpetuare nel tempo l’applicazione dell’esatta formula per la produzione del blu cobalto in sol diesis minore, a cui Sibilla è deputata.  Lo spettacolo si configura come un processo scandito in primis dal movimento del corpo, a cui si accompagna – senza subordinarvisi – l’uso sapiente della parola. Insieme a suono e movimento, in tutta la pièce essa risulta essere mero strumento atto a descrivere dettagliatamente ogni fase dell’esperimento a cui Sibilla si sottoporrà. È proprio in seno alla seconda fase del suddetto esperimento che la parola si manifesta in tutto il proprio vigore, potenziato dall’uso di attributi ricercati: fuoriescono, infatti, dalla bocca di Sibilla sintagmi raffinati, frutto di accostamenti inattesi ma suggestivi nella loro singolarità, usati in modo che pare assimilabile alla tecnica della callida iunctura di oraziana memoria, come le «arabescate zattere», che Sibilla vagheggia proprio quasi in chiusura della seconda fase dell’esperimento.
Tuttavia il filo di questa routine si spezza; anzi, il rivo si strozza, il cavallo stramazza, la foglia si accartoccia, volendo parafrasare il Montale di Spesso il male di vivere ho incontrato. La crepa è evidente, non trascurabile, sia per i Maestri che per Sibilla: i colori delle luci che illuminano il palco sono di gradazione fredda, rispondenti all’impazienza, alla rabbia e alla chiusura di Kappa, che nota come il blu cobalto suoni un altro accordo, il mi minore.
Qualcosa stride, strepita, come un magma ancora imprigionato nei sotterranei d’un vulcano. E bisogna porvi rimedio, anche se costa carne e sangue. Qualcosa scuote, squassa, squilibra.
Dopotutto il fine giustifica i mezzi.
Sibilla, e lo spettatore con lei, si sottopone a «un esperimento, un gioco, il loro gioco», di Kappa ed Esse, che lo hanno ideato – scandendolo in tre movimenti («amore», «distacco», «trasfigurazione») – e intendono metterlo in atto per dirimere la controversia interna a Sibilla, risolvendo la quale credono di poter compiere un passo in avanti verso la difficoltosa realizzazione di un’opera artistica totale. Eppure ogni cosa ha un prezzo: quello del «loro gioco» è di rendere Sibilla un burattino snodabile, da muovere al ritmo di suoni percussivi e simili ad allarmi. La ragazza sceglie deliberatamente di sottoporsi all’esperimento, che si configura come compensazione salvifica alla scomparsa di Xenia, e intraprende così la rotta verso l’Arte. I movimenti dell’attrice sono un flusso continuo di gesti concatenati e ora il corpo si muove concordemente all’epifania dei pensieri, per come compaiono nella mente colorata della protagonista.
Ciascuno ha un colore che lo rappresenta, a seconda della gradazione che assumono le corde del proprio animo nei vari frangenti della vita: tutti almeno una volta abbiamo brillato d’un blu cobalto in sol diesis minore, magari senza esserne stati coscienti, senza essercene chiesto il motivo. La presa di coscienza riguarda invece qualcosa che scompiglia la regola, quella prassi piatta ma piacevole, che esce così fuor di normalità. Proprio per ottenere questo i Maestri e, sulla loro scia, la loro allieva studiano il blu profondo che colora inspiegabilmente una Sibilla in bilico, inceppata come il meccanismo artistico, altrettanto in panne: ciò che sfugge è forse proprio quell’umanità che Xenia con la propria aveva incarnato. Se solo asservissero l’Arte alla vita, alla pietas verso l’Altro, che è specchio mio, della profonda massa d’acqua de «lo gran mar de l’essere»… Quale immagine più calzante per definire l’inconscio, a fondo dell’essere, se non quello marino, di dantesca memoria? L’acqua salina dell’«eremo dell’animo» di Sibilla − che nell’ultimo movimento dell’esperimento si schiude − è attraversata dai riflessi di una vasta gamma di colori: l’andare oltre, l’avvicinarsi all’infinito tanto quanto si vuole non equivale alla mescolanza delle tinte della tavolozza; pervenire alla propria, dolorosa, essenza significa essere in rotta per «lo gran mar de l’essere»; significa chiudere il cerchio, mettendo in atto l’in te ipsum redi. Infatti, continuando a citare S. Agostino, solo rientrando in sé stessi si consegue la verità, che «nell’intimo dell’uomo risiede». Kappa ed Esse questo lo avevano ben capito, avendo deciso di improntare il proprio esperimento al disvelamento della pura, nuda essenza di Sibilla, la quale in uno slancio di massima consapevolezza accetta il vuoto incolmabile. La ragazza subisce però ancora la fascinazione del volto della sorella Xenia sfumato nella memoria: adesso non genera più dipendenza ossessiva ma speranza fortificante. In fondo Sibilla sa che, se quel volto familiare dai contorni indefiniti, tanto piacevole da ricordare, si cristallizzasse in una forma, diventerebbe mostro. Riavere Xenia tra le proprie braccia, infatti, non equivarrebbe a ripristinare lo status quo. Soltanto quando confessa coscientemente a sé stessa questa pregnante verità, la nuova Sibilla, cresciuta interiormente, non è più incompleta, ma circonfusa di luce, viene consacrata sacerdotessa della palingenesi. Rivede con occhi altrettanto nuovi «una libellula», «due gnomi seduti mani contro mani», «un orologio a pendolo», «un pipistrello», «cavallucci marini» e «un pozzo», ora divenuto familiare, da cui attingere l’acqua de «lo gran mar de l’essere».

 

MINIMA MENTE BLU
Accordi sintetici per una nudità d’essenza
II studio su V. Kandinskij e A. Schönberg
I capitolo della Trilogia sull’Arte
con Giulia Messina
regia e drammaturgia Auretta Sterrantino
musiche e progetto audio Vincenzo Quadarella
disegno luci Stefano Barbagallo
assistente alla regia Elena Zeta
ufficio stampa e comunicazione Marta Cutugno
produzione QA-QuasiAnonimaProduzioni / Nutrimenti Terrestri

visto al CORTILE TEATRO FESTIVAL di Messina
Diretto da Roberto Zorn Bonaventura
Castello di Sancho

Ph. Giuseppe Contarini – Fotoinscena