SULLE NOTE DI NAUFRAGIO

NOTE DI REGIA

 

[…]
Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso
[…]

Eugenio Montale

Naufragio è giocato tutto intorno al rapporto traumatico fra lo stupor mundi infantile e la presa di coscienza della realtà del periodo adolescenziale, in uno scontro impietoso in cui il libero arbitrio sembra non avere alcuno spazio di esercizio.  

Danae, la protagonista, è intrappolata in un ruolo che non le consente di essere ciò che vorrebbe: semplicemente viva. Comprende presto di essere diversa da come la vorrebbero, ma continua strenuamente ad affermare ciò che è, come unica soluzione possibile. Lottando contro comportamenti per lei incomprensibili, Danae capisce presto che i suoi inamovibili avversari sono in primis il padre e la madre. Per la madre prova grande amore e anche, in qualche modo, compassione perché ha accettato il suo destino senza voler cercare la propria strada. La ama ma vede in lei ciò che non vuole essere, si sente amata, ma sa di non avere nella madre alcun sostegno. Per il padre prova un sentimento molto complesso: lo ama e vorrebbe essere amata. E nonostante la rabbia che prova a tratti nei suoi confronti, il suo amore per lui non viene mai messo in discussione. Ma è un amore che porta dolore e disperazione, è un amore che non comporta comprensione né dialogo.  

I dialoghi che tenta Danae, infatti, sono sempre a senso unico. 

Il clima del palazzo è freddo. 

I colori dominanti sono bianco e nero. 

La gioia tutta esperienziale che deriva dalla scoperta di quello che sta al di fuori delle mura del suo palazzo è destinata a incrinarsi. E presto, agli stimoli derivanti dall’esterno, si sostituisce la scoperta dell’essere donna e il piacere delle conseguenze che questo comporta. Poi lo strano comportamento della famiglia e quindi la reclusione e la “cecità”. La negazione di tutto e la negazione del sé perpetrate ai suoi danni da coloro che avrebbero dovuto amarla più di tutti. Quindi la pioggia. La scoperta dell’ignoto proibito. 

E poi l’inevitabile: l’abbandono, l’esilio. Con un gesto forte, disumano. Eppure capace di evocare in noi contemporanei un immaginario così attuale da farci comprendere che in fondo Danae siamo tutti noi, tutti quelli che ancora sognano, desiderano, sentono e poi vengono bloccati, additati, castrati, catapultati nelle nuove regole di un gioco che è diventato il meccanismo dominante della nostra società: non essere ma produrre, non disattendere ma obbedire. Se violi questa legge sei messo al margine, ghettizzato. O ancor peggio lapidato, fatto fuori, trasformato in un pazzo in preda al delirio che non comprende le priorità.  

Se violi questa legge sarai allontanato. Perché porti in grembo una minaccia: la dissidenza, la volontà che può diventare atto e divergere, deragliare dal progetto globale in corso. 

Per questo – al di là del seppur ovvio richiamo a immagini della nostra attualità di profughi e migranti – l’immagine di questa donna, abbandonata in mare, chiusa in una cassa, con un neonato fra le braccia, nella sua tragicità iconica diviene triste simbolo della nostra contemporaneità. 

Come chiarisce il sottotitolo, Naufragio si muove partendo da un “preludio” per attraversare quattro “movimenti” e poi approdare a una “fuga”. Il richiamo evidente alla nomenclatura della scrittura musicale è voluto e trova le sue motivazioni nella ragione stessa dello spettacolo. I quattro movimenti sono le quattro stagioni della vita di Danae, fin dove decide di accompagnarci, e rappresentano ciascuna una fase diversa del rapporto con se stessa, con gli altri e con il mondo circostante: primavera/infanzia/libertà ribelle; estate/pubertà/libertà vigilata; autunno/adolescenza/reclusione; inverno/maturità/esilio.  

La composizione del testo sceglie di essere, in un certo senso, una doppia riscrittura che parte dalla musica per attraversare il mito e a essa ritornare in una forma, una tensione e un’intenzione che non sono quelle del melologo, nonostante il rapporto fra testo e musica sia costante: esso è piuttosto viscerale ancor prima che nella messa in scena.  

Lo spettacolo infatti è stato scritto sulle Quattro Stagioni di Vivaldi, tentando di non tradirne la struttura, la metrica e la ritmica, gli umori, attraverso la restituzione e la nuova declinazione in pensieri e parole della storia di Danae. Così, partendo da quello che adesso definiamo “Preludio” e “Fuga”, composizione originale del maestro La Marca studiata su Bach e Dallapiccola, siamo approdati a quattro stagioni originali, composte sulla parola e sui silenzi della partitura testuale. Parola e musica, musicalità e suono, diventano, dunque, inscindibili e necessari per poter ricreare il senso e il pensiero, il sentire in modo completo, complesso e profondo.  

La musica diventa espressione dell’intimo sentire della protagonista e contemporaneamente affresco della realtà circostante. Nella musica ci sono i muti discorsi del padre, fatti di assenza, silenzio, disapprovazione; quelli della madre fatti di sguardi compassionevoli; la forza del mare; il vento; la pioggia. La musica annuncia, amplifica, suggerisce, contrasta, dialoga con la protagonista che segue una partitura rigida ma tanto necessaria da diventare naturale e urgente per l’interprete stessa. La lingua cerca un afflato consono alla materia trattata e una sintesi sonora che ben vesta il personaggio e le sue fasi: la scoperta, l’euforia, la consapevolezza, la reclusione, l’esilio, la maternità, la scoperta dell’amore carnale. 

La difficoltà della messinscena, oltre alla resa tecnica, sta tutta nell’attraversamento di una vita piena di sentimenti che si collocano ai poli opposti e che attraversano diverse età, anche se potrebbero essere figurativamente concentrate in un solo istante. 

Il tempo infatti si dilata e si contrae seguendo la percezione della protagonista, catturata nel momento successivo al naufragio, forse nell’atto di raccontare a un possibile nuovo popolo per lei, la sua storia, una storia che spera possa ingenerare comprensione in chi l’ascolta e accettazione per la prima volta nella sua vita. Eppure usciamo immediatamente dal racconto e attraversiamo ogni fase come una fase del presente, in cui la consapevolezza man mano aumenta e intorno a Danae si spegne l’immaginario di libertà in cui aveva utopisticamente creduto. 

Tutto questo ha richiesto un lavoro strenuo con Marialaura Ardizzone – attrice generosa, acuta e precisa – perché si immergesse e vivesse tutto con il necessario stupore di un presente che arriva all’improvviso e ti stravolge, ma con la capacità, anche per brevi tratti, di mostrare la consapevolezza di chi ha già vissuto tutto, di chi sa. 

La necessità di dare un volto alla sua natura ci ha portato a tracciare una linea che attraversasse la sua vita e le sue relazioni, e sì, definiamo lo spettacolo un monologo, ma Danae difficilmente è da sola in scena, lo spettacolo è puntellato di presenze: mercanti, il popolo, gli stranieri, il padre, la madre, i nobili, l’oracolo e poi gli elementi della natura come il mare su tutti. A essi Danae si mostra nella sua verginale purezza, vestita di un bianco immacolato, che non potrà essere in alcun modo scalfito perché rappresenta la sua integrità di essere umano, la sua totale adesione a una lotta non per il diritto a esistere, ma a essere. 

Così come il tempo, anche lo spazio si moltiplica, si amplifica e si sovrappone: le strade, il mercato, la città, i boschi, il palazzo, la stanza di Danae, le segrete, la cassa, il mare, e poi “Terra!”. Che terra? Una terra in cui potrebbe esserci una nuova pagina bianca da scrivere, una terra i cui uomini, anche se violenti e temibili, sanno anche essere, forse, più umani e accoglienti. 

Non è certo la terra delle favole – anzi la riscrittura ha di certo inasprito diversi tratti di questo mito – e non può bastare un solo uomo a renderla la terra sognata: l’arrivo di Danae porta a una tentata violenza carnale e il successivo omicidio del re da parte del fratello che aveva preso Danae sotto la propria protezione. Non è certo il modo migliore per ricominciare.  

Vergine madre – in un’iconografia che ci riporta necessariamente alla mente la Madonna, madre del Cristo – pura per suo dire, porta morte e scompiglio in una nuova terra, come una Medea, come una straniera di cui non si conoscono ma si suppongono le arti. 

Eppure Danae non vacilla. È forte Danae, spinge forte la sua vita “in direzione ostinata e contraria”, lottando dalla nascita prima per vivere, poi anche per sopravvivere, e sottoponendosi con fierezza a tutti gli sguardi di disappunto e disapprovazione che le vengono lanciati in ogni contesto in quanto donna, in quanto figlia di re ma, soprattutto in quanto ribelle consapevole: Danae è sempre fuori posto. 

Auretta Sterrantino

 

 

Foto backstage di Luisa Visalli