CONTRO IL MINISTRO DEI TEMPORALI: LE MILLE FACCE DELLA REALTÀ
di Andrea Ansaldo
Il secondo appuntamento della rassegna Atto Unico. Scene di Vita, Vite di Scena, a cura di QA-QuasiAnonimaProduzioni, prende forma ancora una volta nella possente cornice della Chiesa di S. Maria Alemanna, in data 27 gennaio 2019, e porta il nome di Traditori. Contro il ministro dei temporali.
Sul palco, Vincenzo Quadarella, nel ruolo di cantante, chitarrista e voce narrante, e Daniele Testa, armato di viola e violino. Per ultimare il resoconto iniziale bisogna anche citare il lavoro di allestimento di Valeria Mendolia, la cui scenografia risulta semplice ma non banale, capace di aggiungere chiarezza e leggibilità allo spettacolo, oltre a regalare, nel finale, un’importante suggestione estetica, perfettamente coerente con i testi e le musiche.
Nato da un’idea di Vincenzo Quadarella, autore della maggior parte delle canzoni eseguite, lo spettacolo si propone come un viaggio fatto di musica, immagini e parole atto a ripercorrere tematiche, eventi e ideologie dell’Occidente, quella parte di mondo civilizzata, libera e prospera.
Ma sarà davvero così?
L’opera si svolge come la recita di un rosario: si va per grani, quindi si procede alla lettura di cinque brani (o “misteri dolorosi”) tratti dalla Bibbia, i primi tre da Matteo (26:36-39; 15:14-15; 27:27-30), i restanti due da Giovanni (1:17-19; 19:28-30). Questi brani fanno riferimento agli ultimi momenti della vita di Gesù, e vanno dal momento di preghiera nel giardino del Getsemani sino al suo trapasso sulla croce, passando dalla condanna da parte di Ponzio Pilato, catalizzatore della volontà popolare e giudice parziale, colpevole di voler dare “soddisfazione alla moltitudine”.
Per ogni “mistero” troviamo un quadro, un’illustrazione relativa alla specifica sezione di spettacolo. A intervallare quadri e brani biblici sono le canzoni di Vincenzo Quadarella, eseguite dallo stesso insieme con Daniele Testa, le cui sonorità e intenzioni si rifanno sicuramente a un cantautorato del Secolo scorso, cosa che si fa ancor più evidente in virtù della presenza in scaletta della cover de La domenica delle salme di Fabrizio de André, autore la cui influenza nello spettacolo non viene per nulla celata; al contrario, l’omaggio a Faber risulta coerente e aggiunge un ulteriore punto di vista autoriale all’interno del discorso sul ruolo dell’intellettuale e del potente nel contesto della società occidentale. Quest’ultimo discorso è solo uno dei tasselli che compongono l’ossatura tematica dell’opera.
All’inizio il focus è il tema dell’immigrazione, falsamente definito come tema d’attualità quando in realtà è parte integrante della storia umana tutta, affrontato attraverso una similitudine con le locuste, la quale mostra come la paura del diverso (immigrati o grilli che siano) sia sempre stata esorcizzata e demonizzata da certe frange del potere, sia religioso sia politico.
Si continua parlando del Novecento, i grandi conflitti mondiali e la nascita della dicotomia capitalismo/comunismo e di come questa abbia condizionato ogni generazione del XX secolo. Non si risparmia nessuno in questa parte, dagli intellettuali di destra e sinistra ai politici, al clero e alle masse, tutti colpevoli di avere indicizzato, catalogato e inscatolato il sapere e di avere afflitto l’umanità con categorie troppo semplici per racchiudere una realtà complessa.
Emerge quindi la volontà dell’autore di evidenziare come il mondo non sia bianco o nero, bensì una scala dalle infinite gradazioni di grigio. Ed è proprio tra quei grigi che si muovono le grandi menti che ricercano la complessità, non per escludere i meno istruiti o scolarizzati, ma piuttosto per stimolarne le menti.
Qui entrano in gioco gli altri protagonisti dell’opera: Musine Kokalari, Friedrich Nietzsche e Hanna Arendt.
La poetessa albanese viene presa come esempio per la sua caparbietà e la solidità delle sue idee, le quali la condannarono ingiustamente a una vita non degna di tale nome. Morta per difendere nient’altro che la sua capacità di pensiero libero, Kokalari è una delle tante persone che hanno contribuito a rendere “pacifico e democratico” l’Occidente post-Muro. Come Kokalari venne tradita dalla patria che amava, Nietzsche e Arendt furono vittime anch’essi di tradimento e incomprensione. Il primo, tramite il completo travisamento del concetto di übermensch, venne strumentalizzato ad hoc dalla dottrina nazifascista, mentre la seconda venne isolata dalla comunità ebraica per le sue critiche nei confronti di alcune sentenze sommarie eseguite da Israele dopo la shoah.
Dopo un tale excursus resta ancora poco chiaro chi siano i vincitori e i vinti della storia, i traditori e i traditi. Alla fine del percorso l’unica cosa che si arriva a capire con certezza è lo svilimento della realtà a causa degli ideali, parafrasando una citazione di Nietzsche più volte ripresa nello spettacolo. Oltre quello è evidente la certezza che un tradimento è avvenuto.
Dopo avere tolto ogni quadro e avere recitato ogni brano selezionato restano soltanto tre pannelli trasparenti, nei cui confini è rinchiusa Valeria Mendolia che scrive ripetutamente sulla superfice la frase di Nietzsche sugli ideali, qualche riga su parafrasata.
La scenografia si rivela quindi una “bara di vetro”, come a volere sottolineare una solitudine di fondo dell’essere umano, traditore o tradito che sia, che non lo esime dal cercare comunque il confronto, la comunicazione di sé stesso verso l’altro e viceversa.
Quindi, rispondendo alla domanda di cui sopra, la risposta non può essere né sì né no, per il semplice motivo che la realtà è troppo ampia e sfaccettata per essere catalogata.
Non esiste la famigerata altra faccia della medaglia, piuttosto sarebbe più calzante un paragone con il dado a venti facce che si usa per giocare a Dungeons & Dragons, ma anche in quel caso mancherebbe qualcosa.
La realtà è qualcosa di complesso, e per via di questa sua natura non può che rifiutare qualunque semplificazione umana, per quanto confortante possa essere.