DALETH – VARCO VERSO L’ABISSO
NOTE A MARGINE DI AURETTA STERRANTINO
Giuda. Ed era di notte
II capitolo della Trilogia dei Traditori o Portatori di colpa
Giuda. Ed era di notte è il II capitolo di una trilogia dedicata ai Traditori o Portatori di colpa, iniziato nel 2016 con Caino. Homo Necans. Tre anni sono trascorsi da quella prima tappa, tre anni segnati da un lungo lavorio e un’intensa riflessione sulle tre figure protagoniste di ciascun capitolo, impossibili da intendersi distintamente le une dalle altre.
Lo spettacolo fonda le sue ragioni, le sue logiche, le sue dinamiche sulla possibilità di un Giuda doloroso, sofferente, costretto – come delineato in Giuseppe Berto ne La Gloria –, sul problema dell’interpretazione, sollevato con grande interesse da Luis Borges nel suo Le tre versioni di Giuda, e sull’affascinante sovrapposizione operata in età medievale tra Giuda ed Edipo, che fa di Giuda un “portatore di morte”. Un uomo la cui colpa è ab origine e ineliminabile. Un angelos lucifero portatore di morte che una sola lettera separa da Dio. Quella lettera, daleth-il varco, sarà la sua lettera scarlatta, è il suo nomen omen.
In un certo senso (e solo in uno, poiché ne abbiamo discusso ampiamente, nelle mie note e in seno alla tavola rotonda) la storia di Caino e Abele – che noi abbiamo scelto di concludere un attimo prima dell’assassinio, quando tutto resta ancora possibile – potrebbe segnare un rito di fondazione che fa transitare da un mondo arcaico e primitivo fondato sull’agricoltura (e un rapporto con la divinità ancora generico, per cui essa resta intesa come forza che attraverso la natura stessa si esprime), a un mondo “civilizzato”, fondato sulla caccia e su un sistema organizzato e razionale che si rispecchia nella divinità e nell’organizzazione del culto. Le forze che si scontravano, in quel primo capitolo, erano l’anelito alla vita che tenta di fuggire alla morte – si nasconde nel buio, incapace di rifiutare il dubbio e accogliere solo la luce – in lotta con l’anelito alla luce che finge di non percepire il buio ma accoglie solo luce celebrandola proprio attraverso l’oscurità, attraverso l’atto sacrilego che in nome di Dio diviene lecito: la morte, il sacrificio, il sangue. Due parti intimamente unite tra loro e irrisolvibili se non in comunione. Una comunione che, attraverso una morte necessaria che significa ritorno all’Uno, rimette in dialogo ragioni diverse inconciliabili nella formula del due.
In Giuda, ciascun personaggio è unito dal sentimento profondo che converge in Gesù, un sentimento incrollabile, indiscutibile, un presupposto dal quale non intendo allontanarmi: tutto ciò che avviene è nel nome di Gesù e nell’amore di Dio e dell’assoluto rispetto per la fede. Tuttavia ciascun personaggio declina e vive questi presupposti in maniera totalmente differente, mostrando come e quanto tutto sia completamente affidato a una sensibilità soggettiva che, annullando il dato oggettivo, o anzi per meglio dire soggettivizzandolo, appunto, dà vita a interpretazioni antitetiche e spesso inconciliabili che vengono spacciate per verità assolute.
Non si tratta qui di uno scontro tra pulsioni diverse, e della necessità della loro razionalizzazione, ma proprio di uno scontro tra logoi: ragionamenti, teorizzazioni e teoretiche differenti, generati da funzioni differenti e che a loro volta generano reazioni e percorsi differenti.
Ci spostiamo dal piano del soffrire (pascho, pathos) al piano del sentire in veste di testimoni (akouw, oraw/oida) e di trasmettere in modo ragionato e univoco questo sentire, della ricerca di una dignità storica (legein, graphein), funzionale alla celebrazione di un Credo. Un nuovo atto di Fondazione, sovversivo, eversivo, definitivo. Necessario.
Il concetto di necessità, che si lega in questo caso a una interpretazione del segno – un segno scarno, essenziale, che può rappresentare allo stesso tempo una cosa o il suo opposto – rende irrinunciabile un atto non richiesto e determina l’impossibilità di sottrarsi a un presunto disegno superiore, all’interno del quale ciascuno agisce come una marionetta. Non nelle mani di Dio, ma in balia dell’uomo stesso che si erge a esegeta.
In questo senso lo spettacolo vorrebbe suggerire una lunga riflessione – necessaria questa, sì – sulla menzogna della storia, raccontata agli uomini da altri uomini e per questo falsa; una riflessione sugli strumenti di retorica e persuasione, sulla propaganda, usata per manipolare gli altri e i fatti attraverso il racconto; una riflessione sull’interpretazione e sugli effetti che una lettura può determinare rispetto a un’altra.
Se tutto vale niente vale. E questo appare chiaro dalle posizioni dei tre.
Se Pietro è il giusto, chiamato a sostituire Gesù al momento opportuno (se ne sceglie per questo l’iconografia del giovane e per questo la si sovrappone a quella di Gesù, di cui lo stesso Pietro veste i panni in scena); Giovanni è il “teologo”, colui chiamato a scrivere e canonizzare, colui chiamato a raccontare la storia. E chi racconta la storia muove la storia, chi racconta la storia la determina. Una verità agghiacciante e profondamente universale.
Se Pietro si muove tra le parole dei fratelli e quelle di Gesù per tentare un’analisi che tenga conto di tutti i punti di vista, Giuda tenta di accedere a un sapere altro, arcano, magico. È il mondo che evoca i numeri, che evoca l’oracolo, che chiama tutta l’arcaica e ancestrale simbologia ebraica dalla propria parte e spalanca un occhio verso un universo altro, risultando sospeso tra il mondo del concreto e quello mistico e misterioso, al quale solo, fra i tre, ha accesso. Un mondo racchiuso in un albero dalla simbologia stratificata, albero della vita, albero di vita, albero di sapienza, albero di morte, passaggio, varco, voce verso l’infinito.
Il mondo a cui Giuda si rivolge cerca la risposta nel segno, nel simbolo, nel numero. E ciascuna risposta è soggetta a numerose interpretazioni. E ciascuna interpretazione si presenta come essenziale, imprescindibile, assolutamente vera. Finché non arriva agli occhi di un altro.
Ma se un solo segno genera non una riposta ma molte domande, come sarà possibile stabilire il vero?
Giuda, in questo sospeso tra i due mondi, è già nel percorso di un rito di passaggio che lo porta ad assumere lo statuto di instrumentum e capro, funzione per cui è stato designato sin dalla nascita.
«E ciò che è accaduto una volta nel tempo si ripete senza tregua per l’eternità», dice Borges. Un presagio, un sogno, un’allucinazione, un peccato originale senza colpa, un peccato senza dimostrazione lo hanno reso ciò che è. Deve essere non ciò che vuole essere, ma ciò che Dio vuole che sia. Una contraddizione irrisolvibile, se non nella rinuncia al sé.
Quello messo in scena è, ancora più che in Caino, il paradosso del tradimento, il paradosso del male usato a fin di bene, il paradosso della colpa lavata via con il perdono.
Si crea così ancora una volta la legittimazione all’atto cruento che dovrebbe segnare un confine distintivo tra OMICIDIO e SACRIFICIO (che diventa martirio), per cui se Giuda tradisce e uccide fuori dal disegno di Dio, volendo tradire, commette un omicidio e tradisce Dio e il Maestro. Se Giuda tradisce per il disegno di Dio, pur non volendo tradire, si tratterà di un sacrificio, non solo giusto ma necessario. Se Giuda si rifiuta tradisce Dio e Gesù.
Qualsiasi sarà la sua scelta, Giuda tradirà.
Giuda sarà il nome che non si può pronunciare. Giuda sarà tutto ciò che si deve dimenticare.
Anche in questo caso bianco e nero convivono in ciascuno dei tre chiamati a muovere il dramma: ognuno dei tre tradisce in qualche misura. Giuda è in ciascuno dei tre. Gesù è in ciascuno dei tre.
Il confine tra buono e cattivo ancora una volta si mostra labile.
Come stabilire dove sta il vero? Come stabilire dove sta la ragione?
Ci troviamo in un mondo senza tempo e senza spazio, un mondo sospeso, in cui si agitano tre figure legate da un patto, un patto misterico, misterioso. Una loggia, una setta, una confraternita, un gruppo di amici, un gruppo di sovversivi rivoluzionari, complottasti, fanatici, servi devoti?
I confini sono labili e nel bianco più puro resta accettabile ogni possibilità.
Questo secondo capitolo si mette nella zona del limite che porta dai poteri e i sentimenti ancestrali al varco verso conoscenze altre, oscure potenze. Giuda è la necessità che dialoga con il giudizio e la sofferenza. Questo lavoro e la trilogia tutta non hanno alcun interesse a raccontare la storia, i fatti: non vi è alcuna pretesa di storicità o storicizzazione. Non è il mistero che si fa uomo, ma il mistero che è nell’uomo stesso e lo muove su sentieri tortuosi nell’atto di cercare una verità più grande, una verità sola: un’assoluta bugia.
È l’amore che diventa forza distruttrice, è la devozione che sfiora il fanatismo, è la ricerca della luce che diventa cecità. Ciò che resta è un grande, immenso, inguaribile dolore. In questo testo più che mai non c’è distinzione fra traditi e traditori. «Quel che sembra non è. Quel che è, io dico, è»: ma cosa è?
Dipende da chi guarda, da chi ascolta, da chi parla.
Ph. Giuseppe Contarini