SUL MESTIERE MAGICO
L’ONESTÀ DI FARSI DOMANDE PER IMPARARE A GUARDARE PIÙ A FONDO CON LO STUPORE DI UNA BIMBA
di Andrea Ansaldo
Fino a pochi giorni fa ero a Firenze, una città che non ha bisogno di elogi o di riassuntoni storici per rendere giustizia alle sue bellezze.
Un pomeriggio aspettavo la mia ragazza fuori da un negozio d’abbigliamento, quando ecco che arriva un tizio, un artista di strada, uno di quelli che maneggiano una sfera di vetro dandoti l’impressione che scivoli lungo la sua pelle e le sue dita (se qualcuno sa il nome di questa disciplina si faccia avanti)*. Il tipo sistema la sua roba, piazza davanti a sé una piccola cassa da cui fuoriesce una canzone potenzialmente tratta dalla compilation di YouTube “Zen Music for Inner Balance” e inizia la sua esibizione. Poco dopo una bambina americana con il padre si ferma a osservare l’artista di strada con un’espressione di meraviglia che solo un bambino può avere. Bocca e occhi spalancati, mani che si muovono forsennatamente per l’eccitazione e lo sguardo che si muove dal performer al padre accanto a lei, come a volergli dire “lo stai vedendo anche tu, perché non sei emozionato quanto me?”.
A fine esibizione la bambina guarda il padre e gli dice con la sua vocina: «We should give him some money». Ma cos’ha visto realmente la bambina? Uno spettacolo di magia, qualcosa di impensabile che va contro la normalità della vita quotidiana di tutti, o il frutto di un lavoro e di un allenamento costante ed estenuante? Queste due domande dovremmo porcele ogni volta che assistiamo al lavoro di qualcun altro, trasformandole adeguatamente a seconda del contesto. Perché usufruire di un’opera artistica, o assistere ad un evento sportivo, significa sottostare a un contratto, giungere a un compromesso. Ognuno di noi entrando in sala al cinema, a teatro, al museo o allo stadio compie una scelta, la scelta di concedere del tempo a qualcosa di cui noi non conosciamo la genesi, la quale può soltanto essere a sua volta raccontata o, nel peggiore dei casi, soltanto immaginata.
È per questo che assistiamo a scempi mediatici senza alcun valore in cui a turno persone, opere e omissioni vengono messe alla gogna o mistificate ed elevate senza se e senza ma. Ignorare il lavoro altrui e vederne solo il risultato, è il modo più rapido, semplice ed efficace per dire idiozie. Da appassionato, studioso e spettatore del cinema leggere certe cose fa male, e volendo entrare nell’ambito sportivo la situazione oltre che precipitare aprirebbe un buco nella crosta terrestre tale da permetterci di immaginare un sequel della Divina Commedia.
Casi che mi sembrano congeniali si trovano, per esempio, in NBA, una lega di uomini e di atleti straordinari. Chiunque assista a un match NBA può vedere LeBron James travolgere intere difese con una penetrazione, assistere a Steph Curry che tira da ogni posizione immaginabile e James Harden tenere una media di 36 punti a partita in una stagione da 82 partite. Da spettatore e da uomo normale, tutto ciò è fantascienza perché osservo persone compiere gesti pazzeschi con la naturalezza di chi quelle cose le fa da sempre. Ma contemporaneamente c’è da rendersi conto che ogni gesto atletico è frutto di un allenamento ossessivo. Nel suo libro The Mamba Mentality, Kobe Bryant (l’unico cestista capace anche di vincere un Oscar, oltre a una montagna di premi NBA) cerca di farci capire proprio questo, dandoci un racconto che fa sudare solo al pensiero di poter gestire una tale mole di allenamento, fisico e mentale. Il libro di Kobe, in ogni caso, è una lettura che va oltre il mondo del basket e che non sfigurerebbe all’interno di nessuna libreria. Gli esempi sportivi sono tanti e sono utili, perché lo sport è la narrazione più efficace e onesta (nella stragrande maggioranza dei casi) che esista. Dopotutto sono una persona per cui uno stop di Zidane ha lo stesso valore artistico di una canzone o di un quadro, è normale che io ponga esempi simili, ma mi rendo conto che non è così per tutti quindi è meglio cambiare ambito.
Recentemente ho scoperto, tramite un articolo, un fatto riguardante Akira di Katsuhiro Ōtomo che mi ha molto colpito. Non voglio star qua a tessere le lodi di un’opera del calibro di Akira, che dei miei elogi non se ne fa nulla, piuttosto voglio porlo come esempio di un lavoro passato in sordina ma determinante per la riuscita del film in questione. Quando uscì l’anime Akira nel 1988, il manga da cui era tratto era già parecchio conosciuto non solo nel lontano Oriente ma anche alle nostre latitudini, forte di una narrativa tosta, dura, violenta e di un comparto estetico che elevava all’ennesima potenza tutto l’immaginario cyberpunk precedente, diventando una pietra miliare di questo fortunato sottogenere fantascientifico. Il film bissò ampiamente il successo dell’anime, portando su schermo l’infinita e soffocante urbanizzazione di Neo-Tokyo, la violenza delle gang che la popolavano e la corruzione che pervadeva ogni ambito amministrativo, il tutto con una qualità di animazione senza precedenti. Chiunque guardi Akira per la prima volta però difficilmente presterà caso alla naturalezza di certe animazioni o alla perfezione del lip sync, anche perché la sua attenzione verrà totalmente assorbita dalla qualità e complessità dell’intreccio e dalle inquietanti incognite che ci mette davanti. Eppure, dopo una seconda visione e qualche ricerca in merito, sarebbe lecito domandarsi come tutta questa purulenta meraviglia sia possibile. È proprio a seguito di questa domanda che scopro che Akira, un lungometraggio di due ore, è animato grazie a 24 disegni al secondo. Detta così può apparire una cosa scontata, ma non lo è, soprattutto alla luce del fatto che neanche blasonatissimi capolavori come Neon Genesis Evangelion o i film dello Studio Ghibli possono vantare una tale mole di disegni per animare ogni inquadratura. Ovviamente la mole di lavoro sostenuta da Ōtomo e i suoi collaboratori si rivelò impressionante, al punto che il budget impiegato fu senza precedenti per un film d’animazione giapponese. Insomma, Akira è il frutto di un lavoro inimmaginabile per fatica e risorse messe in gioco, ampiamente ripagate dall’immortalità ormai guadagnata dall’opera di Katsuhiro Ōtomo.
Questa però è, seppur ridimensionata, la storia di ogni lungometraggio, bello o brutto che sia: mesi, se non anni, di lavoro messi davanti a una platea che aspetta solo di poter applaudire entusiasta o stroncare ferocemente il giorno della prima. Questo discorso è valido soprattutto nei confronti dei grandi autori. Ho letto critici che stroncavano i film di Nicholas Winding Refn più per l’arroganza di quest’ultimo che per la qualità dell’opera (peraltro indiscutibile a mio avviso). Altri distruggere The Hateful Eight a causa della sua prolissità, di cui neanch’io sono fan a dire il vero, ma mi guarderei bene dal parlarne come un fallimento cinematografico. Poi ci sono coloro che non hanno bisogno di vedere il film, che non vogliono dare nemmeno il beneficio del dubbio. Si può leggere il pensiero di queste persone, ad esempio, nella sezione commenti del video tratto da una puntata di Che Tempo Che Fa, disponibile sul canale ufficiale di RAI, in cui Fazio intervistava Marco Bellocchio e Pierfrancesco Favino per parlare del recente Il Traditore. Nonostante gli elogi della critica, comunque non sufficienti per battere la concorrenza di Dolor y Glorìa di Almodóvar e Gisaengchung di Bong Joon-ho all’ultimo festival di Cannes, una porzione di pubblico, quella più tossica, ha fatto notare come siano più rilevanti le presunte idee politiche di Bellocchio piuttosto che l’effettiva qualità della sua opera. Fa male vedere come lo sforzo di qualcuno possa essere ignorato per questioni che non lo riguardano, per dettagli che non minano la qualità di un’opera ma che ne condizionano inevitabilmente la percezione generale.
Un’altra cosa che ho letto recentemente è stata che “criticare è facile, creare è difficile”, peccato che questa cosa sia sbagliatissima. Criticare non è facile, dire stupidaggini lo è. Criticare è un esercizio che richiede una grande cifra di onestà intellettuale oltre che di competenza, eppure persino chi il critico lo fa di mestiere a volte sembra non possedere questi requisiti. Per questo è bene informarsi, per poter criticare con cognizione di causa e portare avanti un discorso critico, perché criticare non vuol dire fare filippiche. Io non mi reputo un esperto di nulla, ma ho imparato nel corso del tempo a farmi delle domande, nemmeno troppe a dire il vero, ma abbastanza da trovare delle risposte interessanti che poi hanno portato a nuove domande. Una di queste domande era proprio “come si fanno le cose che mi piacciono tanto?” e ora sto studiando e facendo pratica per capirlo. Un’altra domanda che mi sono dovuto porre è stata: «Come si porta in scena un’opera teatrale?». Badate bene, quell’ “una” non è soltanto articolo indeterminativo, perché io ho visto come si porta solo una replica di un’opera teatrale, che è diversa dalla replica precedente e da quella successiva, ed è ancor più diversa, ovviamente, da un’altra opera teatrale. Cambia il testo e il contesto, cambiano le esigenze, i luoghi, le luci, tutto. Ho visto scene venir ripetute un numero N di volte per dettagli di cui il pubblico probabilmente non si accorgerà nemmeno, se non a livello inconscio. Tutto questo nel tempo previsto dal tirocinio curriculare necessario per la laurea, figuratevi se a scrivervi fosse stata una delle alte sfere di QA. Avrebbe potuto scrivere un volume intero soltanto sulle prove. È alla luce di una simile esperienza che dico che criticare non è facile, a meno che non lo si faccia con presunzione, ignoranza e, nel peggiore dei casi, disonestà. Una delle cose peggiori che un autore possa fare sono opere prive di onestà, che cercano mezzucci per ingannare lo spettatore. Ma anche lo spettatore può essere disonesto e ingiusto. Secondo me esiste un solo modo per usufruire dell’opere che le varie industrie e altre piccole realtà continuano a partorire, ossia con rispetto e giustizia. Sarebbe bello essere come la bambina americana folgorata dall’artista di strada, ma chi leggerà non lo sarà. Non sarà più in grado di emozionarsi allo stesso modo perché, in fin dei conti, il tempo passa per tutti. Sarebbe inverosimile aspettarsi reazioni di meraviglia simili da parte di ragazzi e adulti vaccinati, perché loro, al contrario della bambina, sanno che non c’è nulla di magico in ciò che stanno osservando. Per questo bisogna scegliere se essere spettatori rispettosi e giusti o se essere bidoni in cui gettare prodotti da cui si genereranno mezze idee e sterili polemiche.
*Il nome della palla è “contact” ci suggerisce Elena Zeta (ndr).
CREDITI IMMAGINI
1. www.djsanjaymix.com
2. https://www.filmtv.it/film/747
3. http://ilbelcinema.com/the-hat
4. https://www.youtube.com/watch?
5. https://variety.com/2019/film/asia/anime-japan-otomo-katsuhiro-orbital-era-film-akira-1203259908/
6. https://not.neroeditions.com/akira-1988-2018/
7. https://wwd.com/eye/parties/elle-fanning-the-neon-demon-new-york-premiere-10467995/
8. https://www.projectnerd.it/2018-06-the-neon-demon-recensione/
9. https://thefilmstage.com/features/nicolas-winding-refn-on-the-female-vision-of-the-neon-demon-and-merging-with-elle-fanning/
10. Ph. Giuseppe Contarini