AGIRE COSTRUENDO UN ARCO NARRATIVO
INTERVISTA A MICHELE SINISI PER IL CORTILE TEATRO FESTIVAL
a cura di William Caruso
Shakespeare ha fatto parte del tuo percorso artistico sin dagli inizi della tua carriera?
Sì. In questo periodo sto cercando di convincere dei produttori a farmi fare una versione di Amleto di gruppo. Mi piacerebbe elaborare questo lavoro giocando sulla quarantena e su Decreto quotidiano, il programma lanciato su Youtube che ho creato in casa con i miei figli. Vorrei proprio partire da questo, dal condividere sulla rete il processo creativo e farlo con la complicità di altri colleghi registi, trovando delle isole drammaturgiche in giro per l’Italia in cui costruire e plasmare il processo dell’allestimento per poi incontrarsi in uno spazio per appuntare il tutto e incontrare il pubblico dal vivo.
Nel tuo programma Decreto quotidiano eri il portiere del Macbeth…
Ho sempre avuto questa idea di fare il portiere del Macbeth e farne uno spettacolo a riguardo. Ho surfato questo ruolo proprio in rapporto alla tematica della pandemia e della quarantena, proprio perché mi incuriosiva fino a che punto, nel gioco di quello che bussava alle porte delle nostre case in questi mesi di paura e isolamento, il dramma del nostro presente potesse entrare in relazione con questo personaggio.
Questo è il tuo primo spettacolo dopo la quarantena? Come ti senti a riguardo?
Sì. Stasera toccherò con mano l’effetto umano di tutte le intenzioni, le previsioni, le cose che potremmo e che potrei dire. Mi attaccherò alla concretezza, alla roba che non poteva esserci a casa: lo spazio, un luogo, il pubblico. Mi piacerebbe dialogare con la situazione. La cosa straordinaria, sicuramente, è il fatto che siamo qui assieme.
Come sei arrivato all’Amleto?
Ho già affrontato l’Amleto con Baracco, per cui interpretavo Orazio, e con Veronica Cruciani, per cui interpretavo re Claudio. Il mio spettacolo esiste dal 2006. L’Amleto è una materia che affronti con registi diversi, da solo, nelle tue regie, è materiale da scandagliare all’infinito. È un tagliando l’essere umano che ha sempre motivo di esistere in qualsiasi momento storico.
Per te chi è Amleto?
È quella domanda perenne tra il pensiero e l’azione, è quell’equilibrio giusto tra il riflettere sulle cose e l’avere sempre la prontezza di agire, che è un po’ il suo dilemma.
E Shakespeare?
È un autore che riusciva a scandagliare col suo lavoro i caratteri degli esseri umani. I suoi personaggi non sono altro che specchio di quello che noi siamo e siamo stati nel corso della storia. Shakespeare è molto più prossimo a noi di quello che si può pensare, ancora di più con l’Amleto, con cui ha presentato l’essere umano moderno e poi contemporaneo. L’essere umano capisce che tutto quello che lo circonda è per gran parte la risultante delle sue azioni e della sua presenza.
Nel tuo Amleto hai subito l’influenza dell’Amleto di Carmelo Bene o di quello di Gassman o di quelli delle produzioni inglesi?
Sicuramente di Carmelo Bene. Con lui in qualche modo abbiamo avuto la frattura tra l’attore interprete e l’attore performer, totalmente a disposizione della storia e del testo. Con Bene il corpo umano dell’artista era il vero testo e la parte verbale diventava il veicolo su cui far passare l’aspetto umano, puntando quindi a un lavoro di destrutturazione del concetto di corpo narrativo verbale, della storia da raccontare. Questi sono tutti appuntamenti che hanno reso ancora più consapevole il rapporto con la narrazione, che nel caso specifico oggi viviamo totalmente costruita sulla presenza umana carnale dell’artista e sui devices a disposizione per la scena che non sono altro che protesi di noi stessi sulla scena stessa. Tutto questo concorre, da un punto di vista materico, a costruire il corpo del racconto. Puoi agire costruendo un arco narrativo in cui i segni, che sono qualcosa di embrionale, scelti nella loro unicità, specificità, riescono a dare al pubblico, in un giusto equilibrio di approssimazione, quell’aiuto per poter giocare assieme a costruire quell’immaginario del presente, la completezza della narrazione, chiamandoli ad essere tutti presenti in maniera del tutto personale, perché ciascuno di noi costruisce con un segno non definito la definizione stessa in base alla propria sensibilità.
I simboli e la destrutturazione del testo narrativo sono diventati elementi fondamentali del tuo percorso creativo?
È come se facessimo il transfert del tinello eduardiano. È cambiato il tinello e credo che lo spettacolo debba rispecchiarne l’evoluzione. Se oggi si lavora su segni, su matericità, su oggetti, su qualcosa che va oltre la quarta parete abbattuta, commistione di linguaggi, è perché oggi questi stessi linguaggi concorrono tutti assieme alla creazione artistica. Quei segni, quei simboli, sono quello che si raggiunge nella curiosità, nella logicità estrema. Potrebbe sembrare freddo come approccio però è curioso quanto un approccio logico e razionale possa poi svelare improvvisamente momenti epifanici in cui quella cosa esplode.
Come lavori alla parola di Shakespeare?
La voce per me ha un valore materico e funzionale tanto quanto le scene. La voce di per sé cambia in base allo spazio tra me e te, si modifica in base alla necessità del comunicare. In questo Amleto la voce è un modo in cui cerco di caratterizzare i vari personaggi. Non è un lavoro di personificazione ma un lavoro di segni che permettono un riconoscimento da parte di chi osserva.
Mi viene in mente il confine tra l’attore e il personaggio…
Sì. Carmelo Bene ha già affrontato tutto questo. È il momento storico in cui l’opera sta tra l’artista e il pubblico, in questa relazione. Come diceva Camus, nel suo discorso alla ricezione del Nobel*, il ruolo dell’artista è quello di essere a metà strada tra la bellezza che lui vede, la sensibilità di prendersi cura della bellezza, e la comunità di riferimento. L’artista è il tubo catodico in questa relazione. Il dramma dell’artista è vivere questo senso di inadeguatezza rispetto a quella bellezza che vorrebbe restituire fino in fondo alla comunità. Il pubblico vive ogni sera questo dramma dell’inadeguatezza dell’artista. Questo per me è il teatro.
Ph. Giuseppe Contarini – Fotoinscena
*Per chi volesse leggere il discorso di Camus per la ricezione del Nobel ecco il link:
Albert Camus – 10 dicembre 1957 – Discorso di accettazione del premio Nobel