L’IMPORTANZA DELLE PAROLE NEL GIOCO DELLA TRADIZIONE
INTERVISTA A GIUSEPPE PROVINZANO PER IL CORTILE TEATRO FESTIVAL
a cura di Andrea Ansaldo e William Caruso
È la prima volta che porti un tuo spettacolo a Messina?
No, sono stato al Sabir Fest e quest’inverno all’Horcynus Festival, dove siamo stati anche qualche estate fa.
È il tuo primo spettacolo post pandemia? Come ti senti a riguardo?
Sì. Mi sento un po’ emozionato. Non faccio questo spettacolo da gennaio eppure una ventina di repliche le ho fatte. Mi sento un po’ come alla prima volta, o quasi.
Come hai vissuto questo periodo di stop durante la pandemia?
La cosa che più mi ha infastidito è che sono emerse delle fragilità della nostra società e, soprattutto, del settore artistico. Tutto quello che era fragile, tutto quello che era inadeguato è venuto a galla e tutte le cose che sapevamo adesso sono diventate tremendamente inefficaci. Una delle cose che continua a darmi fastidio in qualche modo è l’impossibilità di progettare, di programmare: fino ad aprile si parlava di una probabile riapertura dei teatri per il mese di dicembre e poi improvvisamente hanno riaperto a giugno, in pochi, limitati nelle attività e con incassi super ridotti. Io mi ritengo un fortunato in tutto questo perché sto ripartendo. Non so cosa mi succederà non appena finisce la stagione estiva, se sarà possibile programmare, come e dove farlo. Non lo sa nessuno. Anche contattando i teatri riscontri una chiusura, perché ognuno cerca di salvare il salvabile non prendendo impegni con nessuno.
Secondo te un attore, senza poter recitare in modo attivo, come può tenersi in allenamento?
Un attore tecnicamente potrebbe tenersi in allenamento semplicemente alimentando il suo spirito. Io posso dirti che in questo periodo molti attori hanno preso coscienza della propria professione, che è una cosa che mancava. Io ho assistito a diversi processi di attori che hanno iniziato a studiare quelle che sono le dinamiche professionali del lavoro che hanno sempre bistrattato. Non è normale che la maggior parte degli attori non conosca le attività burocratiche necessarie per l’ambito di lavoro. In tanti contesti è venuta fuori l’esigenza di introdurre questi argomenti nell’insegnamento delle scuole teatrali, oltre alle materie artistiche ovviamente. Ho visto molti attori che hanno allenato queste conoscenze. Questa presa di coscienza spero serva per il futuro della nostra categoria.
Chi è Pitrè per te? Come sei arrivato alla sua opera?
Pitrè per un palermitano è un pozzo senza fondo di tutte quelle cose che ti legano alla tua terra, dalle storie alle tradizioni, ai proverbi, le ricette di cucina, le parole. Pitrè ha fatto un grandissimo lavoro dal punto di vista etnologico: non ha inventato niente di suo ma ha semplicemente raccolto. Questo raccogliere è un atto di grande importanza, che solo confrontandosi con Pitrè si può comprendere e apprezzare. Il legame con la sua opera mi ha riavvicinato a tante di quelle cose che fanno parte della nostra cultura e che noi diamo per scontate e che invece non lo sono per niente.
Come nasce la tua trilogia P3 _ coordinate popolari?
È un progetto molto speciale per la nostra compagnia Babel. Nasce con la collaborazione del Museo internazionale di marionette Antonio Pasqualino di Palermo. Il museo ci ha chiesto di pensare un progetto attorno a Pitrè senza tradire il linguaggio del nostro lavoro, cercando di pensare come Pitrè potesse essere messo in scena attraverso i linguaggi contemporanei. È nato quindi questo progetto, P3 – coordinate popolari, un po’ un gioco di parole. Il primo lavoro della trilogia è una delle fiabe più complete di Pitrè, U pappaddu ca cunta tri cunti. È una storia al cui interno ci sono altre tre storie legate tra di loro. Lo abbiamo presentato a dicembre all’Horcynus Festival di Messina. Lì, come primo esperimento, abbiamo fatto una cosa molto semplice, creando un cunto per famiglie e bambini. In questa fiaba, Pitrè ha la capacità e la bravura di lavorare su più livelli di narrazione: ci sono delle cose all’interno di quel cunto che fanno ridere i bambini e delle altre che fanno ridere e divertire gli adulti, come i riferimenti sessuali, i riferimenti alla politica, all’economia, alle abitudini dei siciliani. Vedere nello stesso momento le reazioni del pubblico in punti differenti del cunto ti dà proprio la percezione di questa linea narrativa a doppia valenza che Pitrè ha trascritto.
E Ferrazzano?
Ferrazzano è un po’ il filo conduttore. Io mi sono personalmente innamorato di questo personaggio. Ferrazzano non è altro che il servo scaltro, l’Arlecchino della situazione. In Sicilia ha avuto molto più successo il babbasone, Giufà. Mi ci ritrovo perché è un ragazzo di strada che prova a trovare degli espedienti legali e non legali per vivere. Lui non ha storie personali come ce le ha Giufà, ma è presente in più di 35 cunti, piccoli e grandi. Quindi questa sua presenza ci ha dato la sensazione che potesse essere lui la guida in questo percorso all’interno di Pitrè.
Mentre in Comu veni Ferrazzano che espediente narrativo avete trovato?
Nel capitolo dedicato a Ferrazzano abbiamo cercato di andare fuori dai soliti strumenti del teatro di narrazione o del cunto. Abbiamo provato ad avvicinare un gioco che si faceva nelle taverne con una performance. Lo spettacolo non sarà uguale oggi e domani perché noi provochiamo il pubblico. Ferrazzano prende possesso di me e lo lascio libero di giocare con il pubblico, che potrà scegliere da una bisaccia dei cunti e Ferrazzano glieli racconterà tutti. Lo spettacolo può durare un’ora ma possiamo continuare anche per quattro. L’anno scorso lo spettacolo è durato quasi due ore e non se n’è accorto nessuno. Abbiamo preso questo gioco che si trova raccontato all’interno dell’opera di Pitrè ed è un gioco che si faceva nelle antiche taverne e che mi ha ricordato molto la performance. Il gioco si chiama Cunta e tocca e somiglia un po’ a Patruni e sutta. Fondamentalmente si scelgono delle storie da una bisaccia e da un’altra bisaccia si scelgono delle parole che sono importanti, anche allora erano importanti le parole. La sfida è che il cuntista deve raccontare questo cunto riuscendo a inserire all’interno di questo le parole selezionate. Chi vince, beve: se vince il cuntista, beve; se vince il pubblico, in questo caso, berrà il pubblico. All’interno ci sono altre situazioni che non vi anticipo ma che sono tutti cunti di Ferrazzano che non hanno un inizio e una fine, ma alla fine avrai conosciuto Ferrazzano, perché sono tanti aspetti della sua vita che ti daranno la misura di questo personaggio, oltre al fatto che ti racconta tante piccole e grandi storie della tradizione siciliana.
Il teatro di parola di Ronconi, con cui hai lavorato, come è entrato in relazione con il cunto e lo studio portato avanti con il Mimmo Cuticchio?
Le parole. Il punto di contatto tra il mio primo maestro Ronconi e il mio ultimo maestro Cuticchio sono proprio le parole. Questo spettacolo non ha un testo fisso, infatti, per come mi insegna Cuticchio, la prima conoscenza di un cuntista è la gamma talmente ampia di parole ed espressioni da poter scegliere in quel momento la parola giusta e l’espressione giusta, la frase giusta per raccontare quella storia. Io questi 35 cunti li conosco tutti ma non li so a memoria. Però di ogni cunto conosco tutti i passaggi drammaturgici, le parole chiave. Poi ogni replica dipende molto dal legame che si stabilisce col pubblico. Penso quindi che il punto di contatto tra i due estremi del mio percorso sia proprio l’importanza delle parole, ovviamente con declinazioni diverse. Con Ronconi c’era una scelta delle parole, delle virgole, dei punti. Uno studio a priori e zero improvvisazione, con tanta importanza per la parola. Il mio lavoro è tanta improvvisazione. Infatti, la regola numero uno che ci ha insegnato Cuticchio è proprio quella di non confondere il cuntista con il narratore. Il narratore può fare quello che vuole: può imparare a memoria e può scriversela. Il cuntista non impara a memoria. Il cuntista è più che un attore: è un performer della parola. Questa è in qualche modo la cosa che lo mette in contatto con il teatro di parola.
Il cuntista deve quindi sapere attingere da una vasta gamma di parole e soprattutto da un intero immaginario?
I tre segreti del cuntista, oltre a quelli tecnici (ritmo, ascolto) sono appunto il vocabolario, l’immaginario e la conoscenza delle storie oltre la storia. Uno degli esercizi che ci faceva fare Cuticchio era quello di prendere una storia breve e farla diventare un’epopea. Che è un po’ quello che è successo ai cuntisti con l’epopea cavalleresca.
Ci puoi parlare della scenografia?
Le scene sono realizzate da Petra Tombini, la stessa artista che mi segue in tutta la trilogia. In U pappaddu chi cunta tri cunti, lei ha usato il video mapping dal vivo. Lei mi disegna addosso quello che io vado raccontando, con degli scenari prestabiliti e con la mappatura dei luoghi in cui siamo. Quando ci siamo approcciati a Comu veni Ferrazzano l’idea è stata quella di restituire un immaginario di Palermo non naturalista. La scenografa è come se avesse chiuso gli occhi e avesse voluto costruire un immaginario che suggerisse Palermo, il bianco è stato scelto proprio perché il colore volevamo che lo dessero i racconti. Volevamo suggerire Palermo in maniera non didascalica.
Ci puoi dare un anticipo dell’ultimo capitolo della trilogia?
Dovremmo metterlo in scena, Covid permettendo, a novembre. Vogliamo lavorare sui giochi di strada, altra tematica su cui Pitrè ha raccolto diverso materiale. Sarà la summa del nostro percorso sull’opera di Pitrè.
Qual è la ricerca che porti avanti con la tua compagnia teatrale?
Io sono avverso allo stile. Io non voglio essere riconosciuto. C’era un’espressione usata da Pasolini: “la bestia da stile”. È quella ricerca che crea uno stile valido, che funziona e che poi ti porta a ripetere questo stesso stile all’infinito. Noi abbiamo fondato la compagnia Babel proprio in contrapposizione a questo concetto, perché la città di Babele è simbolo della mescolanza di linguaggi. Noi proviamo sempre a non ripeterci, accettando le sfide e continuando a sperimentare, senza mai accontentarsi di uno stile raggiunto.
Chi è un maestro per te?
Maestro è colui o colei che ti sposta la direzione verso cui stai andando di qualche grado. Un maestro può essere chiunque. Negli ultimi quindici anni penso che sia Ronconi che Cuticchio abbiano spostato un bel po’ la mia direzione.
Ph. Giuseppe Contarini – Fotoinscena