LA NOSTRA VITA È DIVENTATA UNO SPETTACOLO
INTERVISTA A G. CARULLO E C. MINASI PER IL CORTILE TEATRO FESTIVAL
a cura di Andrea Ansaldo e William Caruso
Come avete vissuto questa quarantena?
CM: Mah, in maniera inaspettata, con grande considerazione dell’opportunità che ne conseguiva: darsi il tempo di ritrovare il tempo. Avendo un bambino piccolo c’è stata l’occasione di fermarsi dentro questa dimensione di ascolto reciproco per ritrovarsi. Nel momento in cui è accaduto è stato affascinante, nonostante la paura. Per me il problema è stato principalmente lo scialacquamento di questa situazione, era come se si fosse scialacquata quella dimensione di sacralità attraverso la quale ci era concesso un tempo per fare delle cose nuove, esclusive. Ci siamo trovati a rispondere a delle interviste, a fare dei video per un festival…
GC: Sì, era il Festival Vettori, tenutosi su una piattaforma on line. Ci siamo ritrovati a lavorare su questa piattaforma, ma c’è stata anche una grande paura di perdere ciò che si era seminato fino a quel momento. Abbiamo anche compreso che, forse, in questo momento le opportunità sono altrove, non sono certo nel nostro campo.
CM: Nell’ambito di un teatro che diventa quello che ritorna alla sua funzione prima e quindi ritrova quella dimensione di ritualità e si ritrova fuori dai suoi canoni, attraverso questo trova il modo di rinnovarsi e ritornare alle origini.
Siete riusciti a ritrovarvi anche in questa dimensione di performance on line?
CM: Lui si è molto dilettato con il montaggio video e da qui ne è conseguito un potenziale che lui probabilmente non conosceva. A prescindere da questo, ho avuto personalmente l’opportunità di partecipare a molte lezioni de La Sapienza per investigare il tema della relazione tra spettatore e attore. Cosa che probabilmente non mi sarebbe stata concessa altrimenti. Però, a un certo punto non ne potevo più perché c’era questa corrispondenza, dall’ambito personale all’ambito educativo del bambino, che avveniva attraverso lo schermo e quindi si annullava questa dimensione diversificata.
GC: Per quanto riguarda il nostro lavoro, ritengo che lavorare on line sia un altro mestiere. Non è quello che facciamo noi. Fare progetti video per delle piattaforme o dei festival è più adatto a un videomaker, non fa parte del nostro background. Secondo me, l’idea di lavorare in streaming non è più teatro.
Quella di ieri è stata la prima volta in teatro dopo la quarantena? Come vi siete sentiti al riguardo? È stato come reincontrare il pubblico dopo un vuoto?
CM: È stato anche un reicontrarci noi. Noi lavoriamo molto di circuitazione quindi succede che nel momento in cui lo spettacolo lo fai tante volte diventi una macchina a orologeria. Ieri eravamo dentro una dimensione ritrovata, ma strana, come strana era la distanza tra noi e il pubblico. In una situazione come questa dove comunque, se non fosse stato per il Covid, saremmo stati tutti molto vicini. Laddove risuona la distanza tra noi e il pubblico, che sorride in sordina, a distanza l’uno dall’altro, non si crea la comunità, l’intenzionalità che diventa cupola, sentimento, respiro, riso, pianto. Sento una frammentazione, che amplifica la situazione attuale. Sentivamo una fluidificazione e una frammentazione del mondo contemporaneo, quasi immaginavo che il pubblico stesse davanti a uno schermo. Poi c’è questa schizofrenia dello stare insieme, ma quando esci fuori la gente comunque ti sorride, ti abbraccia. È uno stare alle regole senza che queste regole siano condivise da noi stessi, perché è un atteggiamento antiumano. È come se ci tenessimo in sicurezza senza in realtà esserlo, c’è qualcosa che non torna.
GC: Forse una lettura rispetto alla vita prima del Covid potrebbe essere che anche il rito del teatro sta mutando, è inevitabile. Non torneremo più a stare in prossimità degli attori. Qualcosa manca, non si crea il rito.
Parlateci un po’ di questo vostro spettacolo…
CM: È lo spettacolo storico della compagnia, da cui si è generato il nostro percorso artistico. Nasce da una storia vera, dal fatto che lui veramente stesse male e non potesse uscire, da un impedimento a cui ha fatto seguito una rinascita personale, culminata nella nascita di nostro figlio, da cui ne è scaturita la metafora della rinascita artistica. La nostra vita è diventata uno spettacolo, è diventata una tournée e non riusciamo a liberarci di questa cosa. Dopo questo spettacolo ce ne sono stati altri che hanno avuto altrettanto successo, ma questo è lo spettacolo per eccellenza perché noi siamo Cristiana e Giuseppe, perché lui è Pe e io sono Cri, perché diventa metafora di un sogno che si realizza.
GC: È fortemente autobiografico, un progetto che è nato insieme a Roberto Bonaventura e a Monia Alfieri. Ha dato il via alla nostra vita teatrale, lo spettacolo ha una storia abbastanza importante e dopo dieci anni ancora lo facciamo.
È un po’ pirandelliano…
CM: Sì, perché nella vita quotidiana noi facciamo così, e questo è amplificato all’ennesima potenza. Poi c’è stato il Covid e la gente ha iniziato a trovarci delle coincidenze, addirittura profetico.
La percezione del pubblico come cambia in relazione all’esperienza della pandemia?
CM: Non lo sappiamo, c’era molta gente che l’aveva già visto, però a me avvilirebbe pensare che la gente creda che abbia edificato una roba del genere in funzione del Covid, è proprio quello che noi non facciamo. Ora mi sembra didascalico quasi, è pesante, è anche uno spettacolo inequivocabilmente universale. Il fuori, la malattia.
GC: Questo spettacolo è del 2010, uno spettacolo storico ormai, possiamo intuire la percezione che aveva il pubblico prima attraverso le recensioni che sono uscite, ma la percezione attuale del pubblico per noi è sconosciuta. Il confronto con il pubblico non c’è ancora stato per poter storicizzare anche questa percezione.
Come convivono nel vostro lavoro i vari ruoli di attore, drammaturgo e regista?
CM: Dipende. Qui c’è una rimodulazione di quello che viene improvvisato e che viene trascritto da una persona che in genere svolge una funzione di selezione che spesso viene effettuata dal vivo, svolgiamo una valutazione del materiale che è utile a quello che è il tema centrale, i sottotemi che si intendono perseguire. Quando siamo solo noi due, il fatto di essere registi-attori entra nel gioco scenico, è un incastro di circostanze. Abbiamo lavorato anche in quattro, anche in sei, ma lì il gioco si fa sempre più difficile.
GC: Lì diventa fondamentale chi affianca la nostra regia perché, se abbiamo un gusto simile, il lavoro diventa fruttuoso. Comunque noi tendenzialmente, lavoriamo per “prove ed errore”, come nel caso di Due passi sono per il quale abbiamo improvvisato e creato testo per tre mesi, insieme a una persona che scriveva qualunque cosa dicessimo in scena. Di tutto questo testo ne abbiamo tirato fuori 40-45 minuti. Noi verificavamo di volta in volta il testo che avevamo creato per vedere se potesse essere funzionale o meno allo scopo dello spettacolo e attraverso questa modulazione riuscivamo a creare una drammaturgia coerente con le tematiche che volevamo evidenziare.
Ph. Giuseppe Contarini – Fotoinscena