#CENERE – APPROFONDIMENTI: ELENA ZETA

INTERVISTA AD ELENA ZETA, ASSISTENTE ALLA REGIA, A CURA DI VINCENZA DI VITA

Che differenza c’è tra questo e i precedenti testi della Sterrantino?
Senza dubbio il protagonista, che in questo caso non è il personaggio dello spettacolo. Molto spesso Auretta prende un personaggio noto e la sua storia e li usa come pre-testo per un discorso più ampio: l’ultima notte di Edgar Allan Poe ha approfondito in Wunderkammer il rapporto osmotico tra realtà e immaginazione, il ritorno di Prometheus in una terra ormai priva di vita e il suo scontro con Efesto ci parla dell’importanza di un ciclo che contempla anche la morte, l’immaginario e immaginifico incontro tra Cervantes e Caravaggio in Quarantena è un duello senza vincitori sull’utilità e i fini dell’arte, Caino nel suo complicato rapporto col fratello Abele ci insinua il dubbio che le radici della colpa non siano sempre da ricercare nel colpevole, e potrei continuare con gli esempi. I personaggi vengono approfonditi (come in Riccardo III) o, in un certo senso, traditi (come in Giuda) ma hanno sempre una forte connotazione che viene usata come struttura di base per dispiegare l’argomento d’interesse. In Cenere, invece, sebbene ci sia un personaggio con la sua storia ben codificata (Adone, che rinasce a ogni primavera) e interrotta (si sveglia ma intorno a lui la primavera stavolta non sboccia), il vero protagonista dello spettacolo è il pubblico: come tutti noi, insieme a tutti noi, Adone perde la sua connotazione individuale, è parte e riflesso di un’umanità intera che di umano ha ormai bene poco, ed è combattuto tra l’accettazione di questa condizione e la rivolta – che poi spesso sono parte di uno stesso processo. Abbiamo lavorato molto poco sulla connotazione caratteriale del personaggio, e molto invece sui concetti che esprime, sull’andamento schizofrenico di un ragionamento che cerca di carpire la condizione moderna, sulla ricerca non solo di un rapporto col pubblico ma di una identificazione del personaggio con lo spettatore, che speriamo sia stata reciproca e abbia effettivamente generato quella sensazione – anche questa un po’ schizofrenica – di essere dentro e fuori dal palco, dentro e fuori questa umanità, dentro e fuori la città, la terra desolata che, di fatto, esiste e ci circonda, ci avvinghia, e ci annienta.

Qual è stata la più grande difficoltà tecnica?
Probabilmente, l’impianto luci: in Cenere la luce ha assunto un valore drammaturgico molto importante, come lo hanno le musiche che in diversi spettacoli (penso sopra tutti a Naufragio e Ulisse) svolgono quasi la funzione di un vero e proprio personaggio che dialoga, si scontra o fa riverberare il discorso degli attori. Andando avanti nel percorso artistico, spettacolo dopo spettacolo, anche la luce assume sempre più nitidamente questo valore. In più, le luci di Stefano Barbagallo in questo caso sono state disegnate non solo nel cortile, ma sul cortile che ci ospitava  − come si suol dire, site specific! −, e questo ha come irrimediabile conseguenza che non puoi sapere davvero come sarà fino a che non provi sul posto. Abbiamo dovuto supplire con l’immaginazione e qualche trucchetto per arginare questi inconvenienti, e devo dire a posteriori che ci siamo riuscite bene.
Una menzione speciale va a Davide Liotta che, da buone pratiche solidali del mestiere, si è reso immediatamente e felicemente disponibile a condividere parte della sua dotazione tecnica permettendoci di dare vita a questo particolare e suggestivo impianto luci.

Un dietro le quinte divertente?
La poetica di Auretta Sterrantino rifugge da entrate e uscite di scena, gli attori sono già sul palco all’entrata del pubblico e ci restano fino ai saluti: dietro le quinte non succede nulla, non è uno spazio contemplato negli spettacoli, che nascono, vivono e muoiono nella loro bolla magica. Inoltre, negli ultimi anni ci siamo ritrovati molto spesso a fare spettacoli in luoghi non teatrali come la suggestiva chiesa di Santa Maria Alemanna, Capo Rasocolmo, la splendida Villa Pisani di Patti o, appunto, il cortile Calapaj-D’alcontres, in cui è veramente ostico montare delle quinte (che per altro non servirebbero). Abbiamo fatto di necessità ricerca, e lavorato sulle possibili diverse prospettive dello spazio scenico, per esempio posizionando il pubblico tutto intorno al palco, come in Cenere. Questo “metodo” si sta lentamente amalgamando agli spettacoli, con risvolti molto interessanti sia nella lavorazione che nel rapporto con il pubblico. Ovviamente, nel momento in cui lo spettacolo è chiamato a vivere in un teatro vero e proprio, il tutto va un po’ rimodulato, ripensato, rivissuto, e questo essere mai-definitivo e rimettersi sempre in discussione è uno dei più grandi divertimenti del teatro.