LE VOLTE CHE SCEGLIAMO DI VEDERE NEL BUIO

INTERVISTA ALLA COMPAGNIA BERARDI-CASOLARI PER IL  CORTILE TEATRO FESTIVAL 2021
a cura di Francisca M.

Abbiamo incontrato la compagnia Berardi-Casolari in occasione della messinscena di Io provo a volare. Omaggio a Domenico Modugno, in scena per il Cortile Teatro Festival il 9 luglio nel cortile del Museo Regionale di Messina. Lo spettacolo, prodotto con il sostegno del Festival Internazionale Castel dei Mondi e  diretto da Gabriella Casolari (che firma anche le luci), è di e con Gianfranco Berardi, con la partecipazione di Davide Berardi (voce solista e chitarra), Bruno Galeone (fisarmonica). I costumi sono di Pasqualina Ignomeriello. Lo spettacolo ha vinto il Premio Speciale della Giuria, JoakimInterFest di Kragujevac (Serbia), «for aesthetic emotion, pure and joyful that was caused in cheerful audience»; il Premio del Pubblico, JoakimInterFest di Kragujevac (Serbia); il Premio Antonio Landieri, come miglior spettacolo del 2011, Napoli.
L’intervista è frutto del lavoro condotto in seno all’Osservatorio Critico di QA.

Come è nata la compagnia Berardi-Casolari?
GIANFRANCO BERARDI:
La compagnia è nata dall’incontro tra me e Gabriella avvenuto nel 2001 a Rubiera, in provincia di Reggio Emilia, durante un laboratorio di teatro con la compagnia La dama bianca di Marco Manchisi, uno degli attori del teatro di Leo De Berardinis. Il primo giorno incontrai Gabriella, poi quella compagnia fallì e il Maestro disse che l’unico modo che avevamo per continuare a stare insieme era quello che ci aiutasse a far delle regie,   se qualcuno di noi aveva un’idea. Da quel giorno lavorammo al nostro piccolo spettacolo, Briganti, con cui debuttammo il 3 maggio del 2003 al museo dei fratelli Cervi di Gattatico, sempre a Reggio Emilia. Da allora non ci siamo più fermati, siamo andati avanti con tanti spettacoli: all’inizio lavoravamo con altri per continuare la nostra formazione poi, nel 2005, abbiamo vinto il premio Scenario e nel 2018 il premio Ubu.
GABRIELLA CASOLARI: Lui ha vinto il premio Ubu come miglior attore con lo spettacolo Amleto take away.

Durante gli spettacoli è fondamentale instaurare un rapporto con lo spettatore: che tecniche utilizzate per farlo?
GB
: Io uso gli stessi metodi che usa la pubblicità, però il mio obiettivo non è ingannare ma mettersi a nudo, dire la verità alle persone, e per farlo è necessario parlare di se stessi, di qualcosa che parte dal nostro cuore.
GC: Di solito cerchiamo di mettere le persone a loro agio utilizzando metodi collaborativi e questo funziona.
GB: A noi interessa condividere veramente, collaborare e non competere. Ci interessa creare un ponte empatico tra noi e gli spettatori, un ponte che parta dalla collaborazione che c’è fra noi e gli attori. È un gioco di squadra il teatro, anche quando sei solo. È un gioco di squadra fra tutte le mille voci che hai dentro e tutte le tue mille personalità. Noi partiamo da un nostro vissuto autobiografico personale cercando di renderlo universale in modo da essere ‘uni’, tutti verso l’uno, diventando un corpo unico, quindi un ponte di empatia, in modo da dire la verità su qualcosa che ci appartiene. Così apriamo il nostro cuore allo spettatore, dicendo la verità. In scena io non posso ingannare perché mi metto a nudo, mi espongo. Come metodo per far rilassare il pubblico usiamo la comicità, soprattutto quando c’è un’aria di diffidenza. La comicità è il pretesto, è un utile mezzo per far rilassare lo spettatore che, sicuramente con delle aspettative o delle pretese, viene a guardarci. Solo quando lo spettatore è finalmente rilassato, proviamo a toccare un punto profondo della sua umanità, della sua fragilità.

Quali tecniche utilizzate per instaurare un rapporto con gli altri attori in scena?
GB: Noi ci conosciamo in profondità, per ottenere questo è necessario provare molto, del resto la sintonia che si cerca con il pubblico la si cerca prima con la propria squadra. Con le persone che stanno sul palco c’è un dialogo che non sempre è visibile, spesso non è solo questione di parole ma di suoni, di azioni e di gesti. Il nostro caso è particolare perché la relazione non può essere di sguardi ma è di ascolti, è tutto fondato su questo e sull’attenzione.
GC: Durante le prove ci si conosce profondamente, e poi la scena non mente: la scena mette a nudo, sul palco viene fuori la verità.
GB: Il trucco è che noi condividiamo le emozioni, positive o negative che siano, condividiamo una parte di intimità, apriamo il nostro cuore e condividiamo tutto. E poi questo lo mostriamo al pubblico senza giudizio, cerchiamo di non condannarci, di non pretendere nulla da nessuno ma di costruirci.

In che modo la compagnia costruisce gli spettacoli intorno alla cecità? La cecità in questione è la sua o una più generale?

GB: Dipende dagli spettacoli, noi prima lavoriamo a togliere, a scarnificare, a mettere a nudo: sei quello che sei, prima l’uomo che c’è dietro l’attore. Non parliamo della cecità, realizziamo la cecità: realizzandola veramente e fisicamente, così com’è, diventa la metafora di quante volte decidiamo di non vedere o quante volte invece vediamo quello che non c’è e non vogliamo vedere quello che c’è.

Da dove è venuta l’idea di mettere in relazione il cieco perseguimento dei sogni di Modugno con la cecità fisica?
GB: Quello di Modugno è stato un pretesto, lui è un simbolo, e attraverso di lui il protagonista dello spettacolo incontra il mondo dell’arte, cioè il suo sogno. Il cieco perseguimento, in questo caso, è una cosa positiva della cecità, come per dire «sono pronto a tutto, a buttare il cuore oltre l’ostacolo». La paura è qualcosa che ti acceca ma il buio non è solo una cosa negativa, a volte è un grande rifugio rispetto all’abbagliamento di oggi, all’ipereccitazione dei sensi da parte di tutti i suoni, dai segnali visivi. Questo è il mondo dell’immagine ma l’immagine non è immaginazione, l’immaginazione si trova nel buio, nel silenzio, nel vuoto: si deve partire da quello per poi dopo ricolmare uno spazio. Noi siamo tutti inquinati, occupati da segnali, bombardati dalla televisione, dai social, dalla pubblicità, allora nel buio ci svuotiamo e sempre là dentro troviamo ciò che desideriamo.

Lei come vede e vive lo spettacolo?
GB: Nessun attore vede il suo spettacolo, la bellezza del teatro non è farsi vedere ma è lasciarsi guardare. Si deve cercare di stare dentro le cose, quindi non ci si deve far vedere perché non è un’esibizione, è un mostrare: quando ci si mostra autenticamente, in quel momento si entra concretamente e fisicamente in ciò che si sta facendo e se ne prende coscienza e conoscenza. È una visione interiore, non sono occhi fisici a vedere, non è estetica, è essenza, essere. Non si devono fare dei personaggi, si deve essere; non si deve ‘rappresentare’ ma ‘realizzare’.

 

Ph.: http://www.berardicasolari.it/