SULL’ESSERE COMBATTIVI E SUL CORAGGIO DI PORSI CERTE DOMANDE
INTERVISTA A SERENA BALIVO E MARIANO DAMMACCO (PICCOLA COMPAGNIA DAMMACCO) PER IL CORTILE TEATRO FESTIVAL 2021
a cura di Andrea Ansaldo
Poco prima della replica del 3 luglio de L’inferno e la Fanciulla al Cortile Calapaj-D’Alcontres, abbiamo avuto il piacere di intervistare l’autore, Mariano Dammacco, regista nonché drammaturgo e cofondatore della Piccola Compagnia Dammacco. Successivamente, Serena Balivo, anch’essa curatrice della drammaturgia dello spettacolo, interprete del monologo e cofondatrice della compagnia, ha gentilmente risposto via mail ad alcune domande. Quanto segue è un’unione delle loro dichiarazioni, per le quali li ringraziamo della gentile disponibilità.
Come nasce L’inferno e la fanciulla?
MD: L’Inferno e la Fanciulla nasce dalla fanciulla, nel senso che è uno spettacolo della Piccola Compagnia Dammacco del 2014, che è stato preparato nel 2013, ma la fanciulla nasce nel 2011, quando io e Serena avevamo iniziato a lavorare insieme da poco e stavamo per preparare la prima vera produzione di Piccola Compagnia Dammacco, uno spettacolo intitolato L’ultima notte di Antonio che poi ha debuttato ad Asti Teatro nel luglio del 2012.
SB: L’inferno e la fanciulla è nato come studio teatrale della durata di dieci minuti con cui nel 2011 ho partecipato al Premio Nazionale Giovani Realtà del Teatro dell’Accademia Nico Pepe di Udine nella sezione monologhi. Poi il lavoro per L’inferno e la fanciulla viene momentaneamente accantonato per essere ripreso nel 2013 con il progetto di farne uno spettacolo. Alla ripresa dei lavori ho chiesto a Mariano di “ricominciare” condividendo con lui sia la composizione del testo che il lavoro sulla scena. Così nasce questa drammaturgia composta a quattro mani che ha debuttato nel giugno del 2014.
MD: Infatti L’Inferno e la Fanciulla è composto anche a livello di drammaturgia testuale sia da me che da Serena. Il personaggio della fanciulla è rimasto, ha trovato una sua maturazione, ha trovato un costume che la completa ma che è anche un vero e proprio strumento di lavoro perché è un costume fatto con delle stoffe per i mobili, quindi ha una matericità che, oltre a prendere bene le luci e fare un dono all’occhio dello spettatore, consente anche Serena un certo tipo di lavoro fisico.
Come vi siete approcciati alla scrittura insieme e come avete appianato eventuali divergenze di vedute?
SB: Siamo partiti dalla fanciulla, dalla lingua e dal pensiero del personaggio; abbiamo immaginato un discorso drammaturgico da offrire allo spettatore e lavorato in scena sviluppando una serie di improvvisazioni teatrali sui temi legati al discorso scelto, il cui testo veniva poi trascritto e dettagliato, magari ampliato, sulla pagina e poi rimesso in scena, in azione. In altri momenti, Mariano mi dava dei “compiti” drammaturgici da sviluppare in scrittura. Questi testi venivano poi lavorati in scena e resi a loro volta oggetto di improvvisazioni, in un dialogo costante tra scrittura e lavoro d’attore. Non c’è stato bisogno di conciliare divergenze di opinione.
MD: In qualche modo tenevo le fila io e davo dei compiti a Serena. Quindi se c’era da creare una certa immagine lei si metteva al lavoro, la drammaturgia testuale in alcuni brani è proprio scritta da Serena. Addirittura non improvvisata, proprio scritta, a casa da sola, pianificata, però a partire in qualche modo da un gioco, come se io fossi il leader di drammaturgia o addirittura il docente. Lei poi scriveva tutto questo in un territorio di tematiche e di necessità da toccare che erano comunque parimenti di Serena e mie, se non addirittura più sue: la fanciulla, il suo corpo, sono già un significante, una specie di allegoria fisica e quindi è chiaro che la componente autorale come individuo di Serena era ed è stata forte, pari alla mia se non addirittura superiore.
Quanto e come è cambiato lo spettacolo in relazione allo spazio offerto dal Cortile Teatro Festival?
SB: Abbiamo scelto di collocare lo spettacolo su tre piccole pedane poste l’una sull’altra, in modo da creare un palchetto molto alto su cui posizionare la fanciulla e renderla sempre visibile agli spettatori sulle sedie. Testo, azioni, intenzioni e direzione dell’azione non hanno subito cambiamenti, ma lo spettacolo è stato agito in questo micropalco, in una danza del corpo praticamente sul posto.
L’accento usato per buona parte dello spettacolo è curioso, è coerente nella sua costruzione e ha personalità. Qual è stato il processo che ha portato alla nascita di questi suoni e come si è arrivati a definire questa scelta?
MD: Lavorando. Nel senso che la fanciulla da subito aveva un modo di parlare particolare: Serena, come direbbe la fanciulla, arrotola lingua, fa tutta una serie di cose, un gioco rispetto ai suoni. Questo poi ha anche fatto nascere una lingua, nel senso che anche quando la fanciulla tocca temi chiaramente adulti, giocando in maniera umoristica con quello che sta nominando, commette dei piccoli errori, inventa delle parole, ha dei suoni, dei vocalizzi che sono in qualche modo nel territorio della ‘piccola bambina’. Senza tanti percorsi intellettuali, questo è accaduto dando sempre più vita alla creaturina della fanciulla.
Quindi questo personaggio ha preso vita e con lei ha preso vita il suo linguaggio…
MD: Sì. Alcuni dicono che ha un accento vagamente british. C’è qualcosa nella sonorità che Serena offre con la fanciulla che probabilmente sembra in qualche modo british. Per carità, è il nostro gioco, ma io credo che abbia più a che vedere con il carattere di questa bimbetta.
Una bimbetta che affronta l’inferno e dei demoni molto importanti. Si parla di solitudine, di senso di inadeguatezza, di paura di diventare adulti, tutte le ansie legate a una sorta di rito di passaggio. La ‘fine del mondo’ che dà il titolo alla trilogia si potrebbe dire che è in realtà una rinnovata consapevolezza della propria condizione di essere umano, in questo caso?
MD: Questo mi piace molto. Tu dici che la fine del mondo che dà il titolo alla trilogia si possa intendere come un prendere consapevolezza altra, ulteriore.
SB: La fine del mondo della nostra trilogia allude al fatto che il mondo che conoscevamo non c’è più, si sta trasformando in altro, forse sta subendo una involuzione. La trilogia vuole offrire agli spettatori tre scenari drammaturgici e poetici che mostrino questa involuzione, tre diversi luoghi di senso per riflettere su questo stato delle cose dell’oggi e viverne emotivamente il passaggio.
Nel finale, secondo me, il personaggio assume una notevole consapevolezza rispetto a quel che era inizialmente. In questo caso la ‘fine del mondo’ potrebbe intendersi come la nascita di qualcosa di diverso.
MD: Nel tuo ruolo vedi lo spettacolo e me lo restituisci in questi termini. Inoltre mi fai venire in mente che proprio oggi ho fatto una conversazione dopo due anni con Elena [Zeta, N.d.R.] e siamo capitati anche con lei a parlare della consapevolezza. Credo che non sia un caso che ne stiamo parlando dopo che sia tu che lei l’altra sera avete visto il lavoro. È un viaggio della Fanciulla ma forse di tutti i personaggi della Trilogia. È un viaggio ad andare a guardare dentro se stessi, intorno a se stessi, cose che non necessariamente uno vuole andare a guardare. Quindi è un viaggio alla ricerca di una coraggiosa, dolorifica, consapevolezza che fa sì che l’individuo non si autoinganni, non si nasconda la realtà, le criticità e quindi siamo nel territorio del lavoro su di sé, come direbbero i filosofi, quindi di una crescita della consapevolezza.
Lo spettacolo, nonostante l’umorismo, in alcuni punti sa essere molto amaro. Però, sempre tornando alla sfera della percezione personale dello spettacolo, io ho sentito un certo senso di serenità proprio legata a una nuova consapevolezza.
MD: Alla fine del suo percorso la fanciulla, quando è fuori dalla sua maschera fisica e vocale, in realtà ci offre questo sguardo, cioè che l’individuo che porta una guerra dentro può anche essere abitato da una più profonda pace e che quindi c’è una consapevolezza, un dialogo, un interagire con l’elemento conflittuale. Il fatto di guardare la propria ombra, guardare l’ombra nella propria relazione con il mondo e con le cose del mondo, in realtà ci fa ottenere in qualche modo un elemento di accettazione. Questo c’è nel pre-finale de L’Inferno e la Fanciulla, laddove nel finale lei continua il suo viaggio ritirando fuori dalla borsetta la mappa dell’Inferno di Dante. È accaduto qualcosa, siamo diversi. Infatti, mentre all’inizio lei parte per il viaggio e poi le succede di tutto, è come se anche il modo in cui vado a riprendere il suo viaggio all’inferno sia diverso, e credo che anche per la fanciulla, per il personaggio, sia diverso perché ha parlato con gli spettatori. Infatti, le ultime tre battute dello spettacolo sono tre interrogazioni dirette agli spettatori.
È stato difficile, soprattutto all’inizio, riuscire a gestire questi due registri vocali in modo fluido ed efficace?
MD: Secondo me, se in questi anni Serena è riuscita a contattare emotivamente, intellettualmente, gli spettatori, se riesce − e io lo vedo da anni − a farli piangere, ridere, pensare e vivere e fargli ‘accadere il teatro’, credo che sia perché Serena ha il merito di darsi sempre compiti difficili. Quindi se per ‘difficile’ intendiamo qualcosa di non facilmente raggiungibile ma che costa tantissima fatica, e ‘non difficile’ nel senso di qualcosa che non è riuscito o è riuscito solo in parte, allora io credo che il merito di Serena, fuori di una finta modestia, del lavoro che facciamo insieme, sta nel darci compiti difficili, nel dare a Serena compiti difficili che spesso poi portano dei frutti che risultano in una piena efficacia della scena. Quindi secondo me è stato difficile, come credo tutti i lavori che Serena ha fatto, penso anche a Esilio [in cui Serena Balivo è en travesti, N.d.R.]. Lei arriva, secondo me, ad essere completamente credibile, autentica, e non recitare. Cioè tu la fanciulla non la puoi mettere nel territorio della verosimiglianza perché non la incontri per strada la bambina di un metro e sessanta, così come non incontri una donna con i baffi dipinti alla Groucho Marx, il sopracciglione unico da uomo non proprio brillante e le basette tutte quante disegnate. Diciamo che quello che io ho visto in questi anni andare a bersaglio nel piacere, nell’interesse degli spettatori sta proprio nel fatto che, nel campo della totale artefazione, è come se Serena riuscisse a sbarcare in un territorio di nessuna menzogna. Perché a un certo punto dopo qualche minuto, in effetti, per te esiste la fanciulla, esiste l’omino di Esilio e non ti fai più domande e stai con queste creature.
Cosa c’è nel futuro della compagnia?
MD: Qualcosa bolle in pentola, vedremo. Il 2022 porterà, io credo, una riorganizzazione delle modalità produttive. Per dieci anni Stella Monesi ci ha fatto da tecnico delle produzioni nelle tournée, adesso Stella Monesi ha appena fatto due meravigliosi gemellini, vive in Germania, e quindi quello cambia. La giovane Erica Galante, incontrata nei progetti di Finestre, ha voluto seguire il percorso della compagnia e l’abbiamo arruolata, e quindi quello cambia.
SB: In questo momento siamo in ascolto del passaggio storico che stiamo vivendo, in attesa di trovare il modo di tradurre teatralmente le domande, i pensieri e il vissuto. Poi ci siamo trasferiti tutti insieme a Mondaino, in collaborazione con L’arboreto Teatro Dimora, quindi porteremo avanti questa nuova avventura, tra il lavoro in scena, una nuova produzione teatrale, l’incontro con i cittadini, e qualche data di tournée.
MD: Se ci saranno i mezzi economici vorremmo fare lo spettacolo che io e Serena sogniamo di fare con dodici interpreti, figlio dello studio fatto a Finestre. Ma immagino che sia ancora prematuro perché servono davvero dei denari che per noi non è facile reperire. Bisogna capire che tipo di produzione ci possiamo permettere: una nuova solo di Serena, oppure magari un lavoro con tre persone in scena e prendiamo un nuovo tecnico, che sia a gettoni o provando a farlo crescere con noi. Credo che le cose in questo senso si chiariranno rispetto a un tema, un contenuto. Non abbiamo ancora tratto il dato per un eventuale produzione del 2022. Abbiamo avuto sempre un elemento in comune ai personaggi dei nostri spettacoli, sono personaggi fragili, rotti. Credo che gli spettatori vogliano loro bene perché in realtà ci somigliano tanto, a noi comuni mortali: questi personaggi hanno una loro fragilità dell’anima, ma hanno anche una combattività, una vitalità, che fa la differenza. Un elemento in comune è, in qualche modo, una temperatura emotiva e psicologica molto alta, stati di agitazione e via dicendo. In questo momento alcune letture, alcune riflessioni, alcuni appunti stanno andando, a prescindere dai singoli temi degli spettacoli, a guardare proprio alla questione di una temperatura emotiva. Quindi un viaggio di dolore, di malattia, se vogliamo, della mente e dell’anima. Non mi sorprenderebbe scoprire che tra un anno usciamo con uno spettacolo che come aria di riflessione, di contenuti, di argomento, in realtà va a giocare proprio direttamente con il viaggio della sofferenza. Scegli tu se mentale, dell’anima o chissà che.
Ph. Giuseppe Contarini – Fotoinscena