SFIDUCIA E REAZIONE
INTERVISTA ALLA COMPAGNIA CAPOTRAVE PER IL CORTILE TEATRO FESTIVAL 2021
a cura di Andrea Ansaldo
Al termine della prima replica di Piccola Patria, avvenuta il 30 luglio all’Area Iris, abbiamo avuto modo di parlare con Luca Ricci, regista e drammaturgo, e con gli interpreti Simone Faloppa, Gioia Salvatori e Gabriele Paolocà.
Sin dal primo spettacolo, CapoTrave ha sempre avuto un forte legame con la Sicilia. Che sensazione si prova a ritornarci?
LC: È vero, il primo lavoro che abbiam fatto ha debuttato in Sicilia, a Palermo, ma anche gli altri sono passati da qui. Per me, per Lucia [Franchi, N.d.R.] è un territorio molto importante, anche per altre esperienze. Abbiamo curato il libro di un autore siciliano, pubblicato poi da Einaudi [Terra matta di Vincenzo Rabito, ndr], ma tutti i pezzi di storia della compagnia sono collegati a questo luogo. Per me è sempre bello tornare in Sicilia, mi piacciono molto le persone e il loro modo, discreto ma affettuoso, di mettersi in relazione con gli altri.
Come nasce Piccola Patria?
LC: Non deriva soltanto dal fatto storico a cui s’ispira. Nasce da tutta la situazione legata ai referendum catalani del 2016, poi quello scozzese. Quindi è venuta fuori questa storia del nostro territorio, di questa piccola Repubblica di Cospaia, e ci è sembrato che facesse al caso nostro. L’obiettivo era parlare della frammentazione, del personalismo, della volontà di stare con quelli uguali a te perché solo così le cose possono andar bene, cosa che a nostro avviso è un po’ il contrario di quello che ci serve, perché è la differenza il vero valore dello stare insieme, non essere uguali.
È stato difficile entrare in sintonia con questi personaggi? È stato più complicato o divertente interpretarli?
SF: Parlo a titolo personale ovviamente, il mio primo dovere è quello di appassionarmi alla committenza, perché questo è un lavoro da interprete, quindi essere in assenza di giudizio morale nei confronti delle cose che interpreti. Quello che ti allontana tendenzialmente ti dà delle possibilità in più rispetto a quello che tu senti. La storia è paradigmatica e il mio motivo di interesse nel lavoro di Piccola Patria − a parte il piacere di condividere il palcoscenico con Gioia Salvatori e Gabriele Paolocà, col quale è il secondo spettacolo che facciamo insieme, sono 4 anni di vita insieme, di questi tempi non è poco − sta nel fatto che è una metafora: una scelta politica di un piccolo paese ma la Piccola Patria è anche la famiglia e i rapporti che ci sono. Come tutti i rapporti contengono una parte scolare e una parte che ha del nero. Per il resto è stato lavoro, cioè provare, andare in sala a spaccarsi la testa e provare a essere il più possibile aderente a quello che queste parole vogliono significare senza sovrapporsi a quello che provi a raccontare. Noi abbiamo dei compiti molto precisi e in questo spettacolo la maniera migliore per rispettarli è, secondo me, quello di appassionarsi sempre a ogni replica e capire qualcosa in più e qualcosa di nuovo.
GS: È il nostro lavoro, cercare di trovare una strada per rendere credibile qualcosa scritto da altri. Direi più divertente, nel senso di qualcosa a cui ti devi avvicinare. Io cerco sempre qualcosa che mi interessa dei personaggi, non vado mai verso i personaggi come se fossero qualcos’altro da me, non sono un’interprete pura in questo senso. È sempre un’occasione di curiosità, come accade spesso nel nostro lavoro.
Come dialogano La lotta al terrore e Piccola Patria?
LC: Credo che un po’ in tutti i lavori che abbiamo fatto c’è sempre uno sfondo della provincia italiana. È qualcosa che appartiene a me e a Lucia che siamo nati in provincia e, pur vivendo adesso a Roma, l’abbiamo comunque continuata a frequentare anche per l’altro pezzo del nostro lavoro (organizzare un festival, il Kilowatt), e quindi abbiamo a che fare anche con tutti i livelli della gestione politica, amministrativa del luogo piccolo. Poi alle volte negli spettacoli ci si prende anche delle vendette, si dicono quelle cose che non avresti potuto, cose che ti colpiscono come l’incancrenimento degli esseri umani, le fissazioni, la lentezza della macchina burocratica, le passioni smodate per cose che sembrano meno importanti. In tutti e due questi spettacoli, ma anche in altri che li hanno preceduti, c’è un po’ anche un provare a guardare con distanza questo piccolo cabotaggio di questa piccola politica che poi però è anche la metafora di quello che accade in un senso più ampio, nella politica più grande. Anche La lotta al terrore era quella roba lì, un microcosmo da cui osservare il terrorismo dove la comicità nasceva dall’inadeguatezza dei personaggi nell’affrontare una roba così grande asserragliati dentro questa stanza. Qui fa meno ridere il lavoro, però la situazione è comunque una situazione altrettanto sopra le righe.
C’è un forte senso di catastrofe dentro lo spettacolo…
LC: Questi lavori portano con sé un’amarezza di fondo che è anche sfiducia verso come oggi viene spesso gestita la politica, come agiscono i sentimenti delle persone, come si agitano le passioni per dei fini poco nobili ma molto strumentali, come ci sia tanta velleità nel difendere certe idee, mi riferisco più al personaggio di Lorenzo. Fai bene a cogliere che sono tutti e due spettacoli molto sfiduciati. Il prossimo che abbiamo sarà ancora più sfiduciato, ma è anche difficile aver fiducia di questi tempi. Il compito del teatro non è dare risposta, ma deve provocare una reazione.
Lorenzo è il personaggio più caotico e indecifrabile…
GP: Beh, sono quello che destabilizza la sicurezza dei fratelli, che hanno fatto una sorta di tacito accordo in cui il passato deve essere dimenticato. Lorenzo però arriva e dice che il passato è parte del nostro presente e bisogna pagarne le conseguenze. Il mio personaggio è un po’ metafora di qualcosa che non si può mettere sotto terra, il passato ritorna sempre e quello che siamo dipende anche da quello che eravamo.
Ph. Giuseppe Contarini – Fotoinscena