IL TEATRO NON FINIRÀ MAI
INTERVISTA A GIANLUCA CESALE PER IL CORTILE TEATRO FESTIVAL 2021
a cura di Elena Russo
Lavora per la televisione e il cinema, quando è approdato al mondo del teatro?
Ho cominciato con il teatro facendo cabaret, studiavo ancora all’università quando da ragazzo ho detto ai miei genitori che volevo fare l’attore. Venendo da un piccolo paese di millecinquecento abitanti, da Nocera Inferiore, increduli non mi hanno subito preso sul serio.
Quella che però poteva sembrare agli occhi di due genitori preoccupati una passione momentanea si poi è trasformata in un lavoro, hanno visto e capito che per me non si trattava semplicemente di uno sfizio o un divertimento. Da ragazzino ho cominciato a frequentare le compagnie amatoriali del posto dove ero nato e all’età di 22 anni ho partecipato a un concorso nazionale di cabaret presentato da Nino Frassica, arrivai in finale e vinsi il secondo posto. Quello è stato, in un certo senso, l’inizio: mi sono reso conto che le cose che scrivevo non facevano ridere solo me; non avevo certezze ma l’unica che avevo acquisito era che sul palco potevo provare a stare.
Nella mia carriera ho affrontato anche altri mezzi di comunicazione come la televisione, le trasmissioni televisive, anche se ancora non erano dedicate ai cabarettisti, non esistevano né Zelig né Colorado. Poi anche nel cinema ho avuto la fortuna di incontrare dei maestri, ma il teatro è stato sempre presente da quando avevo 7-8 anni, è un virus che si è introdotto dentro di me e piano piano è cresciuto da solo.
Come nasce l’idea di un laboratorio intitolato Teatro senza fine, progetto voci?
Il concetto del ‘teatro senza fine’ è il fil rouge di tutti i miei laboratori e nasce da un esercizio di improvvisazione di una Maestra che ho avuto la fortuna di incontrare, si chiama Alejandra Manini, è argentina di origini italiane ed è stata mia insegnante e anche mia regista. L’esercizio si chiama ‘senza fine’, ovvero un’improvvisazione che non finisce e spesso lo ripropongo nella sua forma originale e nelle varianti che mi sono inventato. Si avvicendano in scena gli attori, i ruoli e i personaggi in improvvisazioni sempre nuove che si alimentano l’una con l’altra. Questa idea racchiude ciò che è per me il teatro ovvero qualcosa che non finirà mai: finché esisterà l’umanità e ci sarà un briciolo di erba sulla terra non potrà finire il teatro, che è nato con l’uomo e finché non finisce l’uomo non potrà finire una mezzo di comunicazione così antico come il teatro.
Quali attività avete svolto all’interno del laboratorio?
All’interno del mio laboratorio si è lavorato sull’improvvisazione, che io considero un esercizio formativo e un allenamento fondamentale per l’attore. Non c’è un fine, si lavora ‘senza uno scopo’ preciso se non quello di fornire degli strumenti agli attori che partecipano ai laboratori, professionisti e non.
C’è una tradizione di improvvisazione nel teatro italiano ed esistono delle tecniche della recitazione all’improvviso che hanno origini molto antiche. Parlo del lavoro straordinario dei più grandi artisti della Commedia dell’Arte che lavoravano su un canovaccio sopra il quale recitavano ‘all’improvviso’, come dicono gli studiosi. È interessante sapere che spesso, quando ci si trovava in una regione di cui non si conosceva la lingua, per circuitare con gli spettacoli a bordo del carretto, diretti in piccoli paesi, gli artisti per comunicare usavano il grammelot, cioè un modo di parlare inventato che riproduceva i suoni onomatopeici di quelle lingue.
Come è nata l’idea di inserire questo laboratorio all’interno del Cortile Teatro Festival?
Io e Roberto Bonaventura volevamo festeggiare i dieci anni del Cortile Teatro Festival: cinque di Cortile e cinque di Forte Teatro Festival e abbiamo pensato di dare la possibilità a tutti gli ex-allievi, quelli che erano circolati intorno a noi in tutti questi anni, di venire se volessero anche semplicemente per un giorno o due. L’ultimo giorno abbiamo fatto la prova aperta nel segno dell’improvvisazione: l’imprevisto si è concretizzato, in questo caso, attraverso un attore, che gli altri del gruppo non conoscevano e che all’improvviso entrava in scena per fare un personaggio.
Questa era l’idea di base di tutto il laboratorio: rispondere con rapidità all’imprevisto.
Quello che dico spesso è che penso sia la base per chi fa questo mestiere è: quando in scena non si sa cosa fare, quello è il momento più bello e forse fondamentale nell’arte della recitazione dell’attore.
Solo in quel momento, la nostra creatività si può sviluppare al massimo e possiamo rendere visibile delle parole che altrimenti resterebbero solamente sulla carta. Un testo teatrale ha bisogno di un corpo per esistere, veramente, fino in fondo, ha bisogno di carne e sangue, di un attore che poi renda vive le parole scritte sulla carta da Molière a Shakespeare, da Pirandello a Spiro Scimone a Edoardo.
Quanto è importante secondo lei in questo momento storico ritrovare una dimensione umana?
Penso sia fondamentale e non a caso abbiamo scelto il testo di Eduardo Le voci di dentro, perché è il momento di guardarci in faccia l’uno con l’altro, di guardarci dentro e tra di noi, sentire le voci che abbiamo dentro, distinguere qual è davvero la nostra voce, distinguerla dalla miriade di voci che abbiamo in testa, ormai da troppo tempo, perché siamo confusi.
Eduardo De Filippo in Voci di dentro dice, riferendosi all’umanità del dopoguerra: «donna Rosa noi siamo siamo diventati ansiosi […] il mio sistema nervoso è distrutto».
Possiamo superare quello che sta accadendo insieme e non individualmente, nonostante proprio la pandemia ci costringa a fare l’esatto contrario, cioè isolarci. Mi auguro con il mio lavoro di essere riuscito a mettere una piccola goccia nel mare, di dare la possibilità di comunicare alle persone perché non siamo soli. La nostra grande fortuna è proprio questa: non siamo soli anzi, dobbiamo andare a ricercare l’altro, dobbiamo ascoltare l’altro, che poi è il teatro!
Il teatro è ascolto dell’altro, è accettazione dell’altro, è stare insieme, è gruppo, è squadra. E possiamo darci forza rimanendo uniti.
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TEATRO SENZA FINE
Progetto voci
laboratorio a cura di Gianluca Cesale, dal 30 luglio al 7 agosto
prodotto e ospitato da Cortile Teatro Festival e Castello di Sancio | Messina
Cosa sta succedendo? Dentro e fuori di noi. Cosa è successo al mondo e cosa sta accadendo all’umanità? Voci, si accavallano dentro le nostre teste da troppo tempo ormai e non sappiamo più distinguere il vero dal falso, il sogno dal reale. Andrà tutto bene. Abbiamo smesso di ripetercelo, perché ci sembrano ormai solo parole vuote. L’unica cosa che ci resta è improvvisare. Ritrovare quella capacità di adattarsi per rispondere alle variabili impazzite che abbiamo di fronte cercando un senso negli eventi che ci hanno preso alle spalle, di sorpresa, a tradimento. Ogni volta che dobbiamo adattarci si attiva un processo creativo. Nel lavoro dell’attore è proprio grazie all’improvvisazione che s’innesca questo processo e nello stesso tempo avviene una trasformazione a livello personale, una dilatazione del proprio campo di esperienza, un processo per prendere coscienza di sé. Mai come adesso bisogna essere attori. Per riconoscere la nostra voce tra le voci che abbiamo dentro. Un segnale di vita. Un messaggio dentro una bottiglia. Un S.O.S. Una voce che parta da noi per arrivare agli altri e tornare indietro. Una eco, forse, per sentirci ancora uniti, vicini, non più soli.
Si può smettere di sognare. Ma i sogni non finiscono.
Si può smettere di vivere. Ma la vita non finisce.
Si può smettere di fare teatro. Ma il teatro non finisce.
Può finire anche il mondo purché la fine del mondo sia l’inizio di un mondo nuovo.Gianluca Cesale
«Giesú, ma questa è la fine di tutto! Questa è la fine del mondo! Il giudizio universale! Qui si sta facendo il giudizio universale e non ce ne accorgiamo.»
Eduardo De Filippo, Le voci di dentro, 1948