«PAROLE VERSATE A SPIEGARE UN’IMMAGINE»

NOTE DI REGIA
Incontro Riccardo III per caso: letto insieme a tutta l’opera di Shakespeare in giovanissima età, e finora accuratamente evitato come progetto di messinscena (insieme a Pirandello). Ci sono mostri sacri con cui si devono fare i conti, ma solo quando l’incontro/scontro può avvenire in modo intellettualmente onesto, quando si pensa di poterli ancora far parlare attraverso di noi. Senza mortificarne la grandezza e senza uccidere la nostra poetica. Così è accaduto che dopo due incontri casuali io “volli, fortissimamente volli” lavorare su questo testo. Vicino, contemporaneo, spietato, vero.

Shakespeare non può essere privato però di se stesso, perché le sue opere sono in costante dialogo tra loro (e questa nella fattispecie non solo con l’Enrico VI) e possono, e forse devono, nutrirsi una dell’altra. Attraversare Shakespeare, le sue visioni e i suoi meccanismi, è la prima necessità per tentare di riscriverlo. Proprio grazie al suo aiuto ho attuato un percorso per me decisamente illuminante. Anche testi critici su Shakespeare, come quelli di Kott o Bloom, mi hanno consentito di avere uno sguardo sull’autore mai statico e sempre alla ricerca di nuove domande. Penso al bell’articolo di Paolo Coppi del 2001, in cui lo studioso sottolinea come la grandezza di Riccardo stia nel fatto che rappresenti una cellula arcaica, ancestrale e primordiale che è in ognuno di noi. La lettura di questo lavoro è stata senza dubbio importante: «la sua tecnica è agire, il suo agire è tecnica» – dice – ponendo l’accento sulla sua «intelligenza anaffettiva» che ne acuisce i tratti istrionici e lo rende un burattinaio manovratore. Così si è delineata con più chiarezza una dinamica di rapporti in cui Riccardo è insieme attore, regista e narratore onnisciente.  Importante per me anche la visione del Riccardo III in chiave operistica di Giorgio Battistelli, con la magnifica regia di Robert Carsen e un impianto musicale di forte valore in senso drammaturgico.
E poi il confronto inevitabile con la concezione di Carmelo Bene non solo rispetto a Shakespeare, ma anche e soprattutto in relazione al suo lavoro su Riccardo III, con il contributo critico di Deleuze.
Sono partita dai suoi tre assunti: ritirare gli elementi stabili, mettere tutto in variazione continua, trasporre tutto in minore.
Mi sono chiesta quali fossero gli elementi stabili, non solo nel testo shakespeariano, ma anche e soprattutto nelle sue restituzioni: bruttezza e deformità. Adattamento storico e sentimento del tempo. Ho deciso di sottrarli come dati estetici ed estetizzanti. E sono partita dall’assenza e dalla forza ossessiva che scaturisce di fronte alla ricerca disperata di qualcosa che non c’è, che non si ha, che c’è ma non si vede, che esiste solo nella nostra testa. Ma lavorare in sottrazione significa a volte costruire per chi guarda, creare uno schema e poi negarlo. Creare una routine e poi spezzarla. Creare delle sicurezze e poi farle vacillare.
Stabile è di certo anche la relazione tra i due e per questo ho cercato di lavorare sul contrasto di fondo che la anima, la grande contraddizione di una vittima che sceglie di amare il proprio carnefice. La stabilità diventa un goffo tentativo di sopire sentimenti troppo contrastanti e dolorosi che vanno scoperchiati attraverso il rispecchiamento e ogni possibile e sincero artificio retorico. Le parole tornano ma tornano ogni volta diverse ed è proprio nella ripetizione, nell’apparenza di un cerchio immutabile che tutto invece cambia, rimanendo in fondo se stesso ma con ragioni differenti.
E allora stabile nella mia riscrittura è il mantra, seppure attraversi continue variazioni, una variazione che intacchi significato, sintassi e forme secondo la lezione di Bene.
Una variazione o una somma di variazioni che diventa continuità nel sospeso ma serrato susseguirsi di scontri.
Trasporre tutto in minore è la mia tendenza naturale, ma per Riccardo, secondo me, non sempre è corretto, proprio per la sua natura istrionica di performer e le sue improvvise oscillazioni d’umore. L’elemento di finzione che incarna deve uscire in maggiore e la violenza che perpetra è tanto in minore, ossia tragica, da avere la necessità di vivere nel contrasto per esprimersi in tutta la sua crudeltà. In tal senso è stato fondamentale comprendere quando assecondare e quando contrastare la musicalità del testo, per rendere atto delle diverse pulsioni dei due personaggi, anche al loro interno: tenerezze, desideri, dolore, rabbia, odio e amore, sete di vendetta e brama di potere. Per questo a tratti è necessario inasprire il testo, addolcirlo o raffreddarlo completamente e in questo senso, al di là del lavoro tecnico di metrica o rottura della metrica, un ruolo principe è quello svolto dalle musiche che devono lavorare sempre come ulteriore piano della drammaturgia,
contribuendo a dire, a sottolineare, attraverso forti contrasti, la fredda spietatezza, la solitudine, il dolore.

L’idea dello spettacolo poggia dunque sulla destrutturazione, che io ho voluto intendere come totale. Il testo è destrutturato, l’impianto narrativo è completamente destrutturato, la scena è destrutturata, le musiche sono destrutturate e ricomposte dal vivo, e per seguire la lezione di Bene, anche il personaggio è destrutturato. La costruzione avviene in scena. E la scena rischia di mutare in base alla sua ambientazione. Si rivela dunque necessario coglierne lo spirito per poterlo salvaguardare, facendo ricorso anche in questo caso al principio della variazione: tutto può cambiare per far sì che lo spirito resti immutato. Attraversare spazi e luoghi diversi in fase di studio è stato difficile ma fondamentale.
Il luogo del teatro è innanzitutto un’urgenza. Il luogo del teatro è lo spazio sacro del rito e per questo è ambiente interiore: basta il segno a restituirne il sema. Ma il luogo del teatro, inteso nella sua forma architettonica preposta, è anche necessità artistica: grazie a una serie di supporti e opportunità tecniche può aiutare tanto la direzione artistica di uno spettacolo. Se è vero che la privazione è un mezzo per esercitare immaginazione e inventiva, è pur vero che certe limitazioni sono insuperabili. La sfida è non farne un limite.
Mi è stato chiaro sin da subito che la scena dovesse essere scarna: corridoio, navata centrale, letto, chiesa, casa, piazza. Ma non volevo nulla, nessun elemento troppo concreto da diventare preponderante: nulla. Nulla se non delle scale, elemento di forte valore evocativo: salire al trono, scendere nella morte, essere in ginocchio, essere spettatore in un theatron.
Mi sono chiesta: quando il gesto è così significante, un oggetto può avere un suo spazio unico e univoco deve invece agire nella dimensione del polisemico, attraverso anche la sua rifunzionalizzazione?

Mi è parso evidente che la risposta stesse nella seconda opzione.
Così le scale sono cimitero, altare, inginocchiatoio, rupe di fronte al baratro. I fiori sono quelli dei morti e divengono poi quelli nuziali, per tornare a essere simbolo di morte in un rovesciamento che li riferisce a Riccardo, tanto come ipotetico pugnale, quanto come fiori in se stessi da depositare sull’ipotesi del suo cadavere. Il mantello marmorizzato è il telo che copre le cose che non si usano o che si conservano, il lenzuolo di un letto disfatto, il tappeto che conduce all’altare, la pozza di fango in cui ci si trova sommersi dai dubbi, il mantello del Re, simbolo di potere assoluto. L’abito bianco è abito da sposa insieme nuovo e già usato, è contraddizione in termini, è sinonimo insieme di rinascita e morte e infatti facilmente diventa possibile cappio per lo stesso Riccardo. Ma l’abito bianco è anche lo specchio che rende Riccardo più simile ad Anna e Anna più somigliante a Riccardo. Una costrizione che insieme all’anello/cerchio non solo è vincolo, ma anche
legame. L’abito di lei e l’abito di lui sono in negativo e sempre complementari, perché Riccardo e Anna sono in negativo ma sempre complementari. Necessari l’uno all’altra.
Il mantello rosso non solo è vendetta, ma anche martirio, sangue, ferita. Ferita che lega i due nella morte: Riccardo apparecchia il rito del matrimonio con quello che diventerà il proprio mantello e il suo stesso sudario e il letto di morte di Lady Anna con la sua stessa vendetta. Un unico gesto rituale per due sensi tanto opposti da essere coincidenti, indispensabili.

Le tre tappe dello studio sono state utili a chiarire tutti questi passaggi.
La prima tappa è servita a mettere in cantiere l’architettura dello spettacolo attraverso la sua scrittura scenica, necessaria per chiarirne la drammaturgia, dal momento che il testo poetico è un testo a tratti ermetico e fortemente poggiato sul simbolo, sulla metafora e sulla coesistenza di numerosi piani di senso che non si chiariscono con la sola parola, neanche laddove, nelle parti più strettamente dialogiche, vivono in maniera più esplicita dissidi e contrasti.
Si è inoltre chiarito quanto lo spettacolo sia giocato su uno spazio esteriore/esterno e uno interiore che necessita di una condivisione all’esterno. Una consapevolezza con cui non è stato facile fare i conti. In tal senso è stato fondamentale chiarire il ruolo del pubblico: giudice e insieme giuria da convincere, conquistare, impietosire, provocare. Colpevole e vittima, tradito e traditore.
In seguito mi sono concentrata maggiormente sull’essenzialità e la dinamica a specchio dello spettacolo. Ho provato a eliminare ogni orpello per cercare una dimensione più giusta e incisiva del gesto. Abbiamo imparato l’importanza del buio, e di uno spazio più concentrato, se non per un dato oggettivo, quanto meno grazie a un lavoro di definizione buio/luce.
Delia è servita a tornare sul testo e sui luoghi. A definire spazio pubblico e privato e la loro relazione.
A scandire il ritmo ascensionale e discensionale dello spettacolo: una vertigine che da altezze inimmaginabili deve precipitare nell’abisso più oscuro: una specie di loop temporale in cui sembra spesso di ricominciare, ma trovandosi ogni volta un passo avanti. Ogni passo ci avvicina all’epilogo, che tanto Riccardo quanto lo spettatore conoscono benissimo sin dall’inizio.

La scrittura scenica cerca anche di dipingere, attraverso un denso simbolismo che è già nel testo, l’opposta polarità tra Anna e Riccardo. Le stesse parole, le stesse immagini, gli stessi concetti, gli stessi momenti, sono attraversati da entrambi i personaggi attraverso il loro punto di vista e la loro personalità e quindi agiti, sentiti e “reagiti” in maniera totalmente divergente.
Inoltre il conflitto-gioco, nella sua più cruda rappresentazione, è reso mediante un ring, una scacchiera in cui gli opposti sono animati appunto dalla crudeltà, come è intesa da Antonin Artaud.
Riccardo III è – e il mio vuole esserlo in particolar modo – l’incarnazione degli imperativi assoluti “possedere”, “dominare”, “essere come”, “essere più di”. È la negazione dell’esistenza come manifestazione di grandezza di per se stessa ed è, in tal senso, la totale negazione dell’altro: “io sono non in quanto altro da te ma in quanto tu non sei e io ho fatto sì che tu non fossi”. Una ricerca di onnipotenza che non trova le sue fondamenta nel superomismo, un uomo non semplicemente “indiato” (Montale docet), ma così fragile e spezzato da cercare di affermare se stesso sopra ogni cosa, quasi per tentare di tornare un intero.
Credo che stia qui il dramma di questo nostro secolo, il dramma di una super-esistenza in cui nessun “io” può diventare “sé” perché rifiutato in quanto “tu”, bloccato pertanto nel dominio dell’esteriore senza possibilità di accesso ai recessi interiori.
Sono le insicurezze che si insinuano nello spirito di Riccardo e un dolore, così radicato e forte da renderlo totalizzante, a diventare la bussola delle sue azioni e delle sue temperature. Esattamente come l’uomo di oggi, in grado di soffrire solo per le proprie tragedie e del tutto impermeabile a quelle altrui, Riccardo non si rende conto del dolore che arreca agli altri o comunque lo ritiene accettabile per il raggiungimento dei propri scopi. Sono questa sua superficialità e questo suo egoismo, questa cecità di un Edipo ancora vedente, a renderlo mostruoso tanto nelle sue fattezze quanto proprio nel suo stesso essere.
È nell’incontro con Lady Anna che tutto si tramuta e il dramma di uno diviene il dramma dell’altro, rappresentando così uno specchio a cui è impossibile sottrarsi. Nel loro confronto ogni possibile verità con un unico effetto: l’apertura di un baratro che urla solitudine e il conseguente tentativo di modellare il mondo e gli altri a proprio piacimento. Non lavorare sul sé, ma entrare subdolamente nelle intenzioni dell’altro fino ad assorbirlo, assumerlo, fagocitarlo. Una violenza che supera ogni limite di immaginazione, in cui in fondo ciascuno dei due si trasforma nell’altro, entrambi uccidono il sé, ma solo uno dei due uccide effettivamente l’altro.
Il rapporto tra Riccardo III e Lady Anna, la loro storia, non si limita e non può limitarsi a una linea di intenzione (il cosiddetto need) che culmina con la morte, ma deve essere nutrito da un sentimento di profondo eros, nel senso greco del termine e nella sua profonda connessione con thanatos, che spieghi l’esitazione dei due a dividersi e renda difficile per entrambi compiere l’atto fatale. Per questo si è scelto di iniziare a costruire mentre il pubblico entra in sala, con una danza che lasci intendere le premesse alla relazione dei due.
Per me Riccardo e Anna sono lo specchio uno dell’altra e contemporaneamente lo specchio di chi giudica e li giudica impietoso, per fuggire alla propria colpa o alla propria “bruttezza”. Per questo nella tradizione Riccardo e Anna diventano “la Bella” e “la Bestia”. Ho voluto giocare con questo sentire comune e tentare di scardinarlo, provando a mostrare come Riccardo diventa ciò che è perché corroso dal suo desiderio di potere e dalla sua solitudine che sono l’uno causa dell’altro in un cerchio senza fine, e Anna non è la povera vittima che sempre abbiamo immaginato, ma per me a un certo punto si mostra lucida e determinata nel suo desiderio di vendetta a ogni costo. Se il teatro rappresenta l’uomo, non può immaginarlo o tutto bianco o tutto nero, o buono o cattivo. Perché l’uomo è nelle sfumature, nei contrasti, nelle contraddizioni che lo animano, rendendolo meravigliosamente interessante, vivo e denso. Dunque ho cercato di rendere questi personaggi più tridimensionali e attraversare la loro iconografia tradizionale per cercare di “plasmare materia plastica”.
La loro storia è e deve essere contrastata e l’uno è e deve essere il punto debole dell’altro e contemporaneamente la chiave per raggiungere la cosa che desiderano di più, attraverso la distruzione e la rinuncia: gli opposti si attraggono e ognuno diventa per l’altro “croce e delizia”. Si tratta di un odi et amo che si ripercuote su loro cambiandone definitivamente il sentire, l’essere.
Riccardo e Anna possono essere emblema di un potere corrotto che sta a tutti i livelli della nostra società e che si esercita attorcigliandosi su se stesso, ignorando colpevolmente il bene della società stessa. Ma potrebbero anche essere una coppia comune, chiusa in una relazione distruttiva dalla quale nessuno dei due riesce a uscire. O ancora una coppia dei nostri tempi che vive la propria relazione all’interno di un reality, sotto gli occhi di un pubblico curioso, da compiacere, da conquistare. Un pubblico che decreterà il tuo successo o il tuo insuccesso.
Anna e Riccardo sono l’amore viscerale, quello sbagliato, impossibile. Rappresentano le conseguenze di un egotismo assoluto, quello in cui sempre viene messo il nostro interesse prima dell’altro o prima degli altri. Non importa di chi sia il torto e di chi la ragione. Contano le conseguenze delle nostre azioni. Conta come decidiamo di reagire anche nelle circostanze più tragiche. Conta chi decidiamo di essere e se decidiamo di essere.
Insomma, torniamo sempre lì: essere o non essere.

Auretta Sterrantino

 

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