NAVIGANDO COME SPAZIOTEMPONAUTI
Diario delle prove di “QUARANTENA“, QA-QuasiAnonimaProduzioni
a cura di Elena ZETA
GIORNO 11
venerdì 11 maggio 2018
Il primo giorno è sempre un po’ strano. Come la prima parola di un foglio bianco, come il primo sorso di caffè, come uno stimolo delicato – quasi timido, impacciato – che pian piano rimbalza sulle pareti di te e si accresce, rimbombo dopo rimbombo.
Se poi è un primo singolare, solo per te – per me, in questo senso dico −, che hai letto di corsa il primo capitolo e cominci insieme agli altri il secondo, è molto strano, abituati alle letture collettive.
La sala tappezzata di fotografie che si riflettono sui grandi specchi a parete ci accoglie sorridendo da ogni angolo. Solo alcuni sono spiazzati e timidi – i nostri −, di chi si appresta a cominciare un cammino dopo aver tanto studiato le mappe. Come in un tempio ci liberiamo delle scarpe e i nostri piedi vengono accolti dal parquet. Chissà perché camminare senza scarpe t’infonde subito un senso di libertà che sale su su dal terreno… come a farti provare emozioni di pianta.
Il corridoio ci trasporta accordi di musica classica, stralci ritmici di voci, entusiasmi e concentrazioni dalla stanza all’altro capo. Accenni di un altro mondo, di un altro spazio, di un altro tempo anche, forse. Il momento è il medesimo, il resto… chi lo sa!
Stretching. Allungamenti alla sbarra. Così ci conformiamo (e confondiamo) con il luogo in cui siamo. Il primo passo è sempre conquistarsi lo spazio. Non “conquistare”, non all’infinito, non in un modo che va bene per tutte le declinazioni. Conquistarsi. Per sé. Ognuno per il suo sé. Educarsi allo spazio, tirarsi – e farsi tirare − fuori invisibili fili, fissarli da un capo all’altro della teca, creare geometrie disordinate come binari dell’esplorazione. Vederli intrecciarsi con altri fili, di un sé altro, e continuare così, ancora e ancora e ancora, fino a che non resta più spazio libero.
Ed eccomi qua, ad abbozzare su un foglio bianco traverse fatte di lettere, su cui andranno posizionate rotaie di frasi, che dovrebbero transitare concetti e condurre in un viaggio la cui stazione sempre si scorge ma – si spera – mai si raggiunge.
Dovrei trovare una cifra per questo diario. Una cifra conforme a questa nostra Quarantena.
GIORNO 12
sabato 12 maggio 2018
E poi viene il corpo. Bisogna instradare una locomotiva sui binari.
Certo che per noi in Sicilia è difficile raffigurarsi il sistema intero, per noi che ci fanno viaggiare su binario unico. È difficile già altrove, perché è inconcepibile – ancora – che ogni carrozza possa, senza staccarsi dal treno, percorrere il suo binario. E così mentre le gambe percorrono il binario orizzontale, la testa s’impiglia a quello verticale, e in questa armoniosa discordanza il corpo avanza.
Il problema è che siamo abituati a pensare che è il binario a fare il percorso del treno. La nostra mente, sappiamo – e abbiamo abusato anche troppo di questa scoperta – che influenza il corpo. Ma fino a tempi recentissimi la scienza ufficiale non ha indagato il contrario: la postura di un corpo influenza biologicamente il cervello che gli appartiene. Alcuni studi dicono che bastano circa 23 secondi di una determinata postura perché il cervello di quel corpo cominci ad alterarsi verso lo stato emozionale corrispondente. Consigliano
infatti, prima di un evento importante, di passare 30 secondi in piedi, col corpo disteso, le braccia alzate in quel gesto che il nostro DNA ha inscritto come “vittoria”. Provare per credere.
E così anche il tuo animo, quando il corpo si appesantisce e si trascina, incurvato su se stesso come a proteggere la pancia, il ventre, l’addome, la parte più delicata e istintiva di un corpo vivente, anche il tuo animo si avvia in un tunnel nero, rischiarato da fasci di luce che cozzano sugli oggetti in maniera prepotente, li fanno emergere grado per grado dal buio, mano mano che i tuoi occhi si abituano all’oscurità. Eppure una finestrella ci sarà, da qualche parte dovrà entrare quella luce, seppure non si scorge nel buio neanche una fessura, e forse l’unico modo di trovarla è continuare a brancolare tentoni.
Al contrario, un andamento leggiadro, leggero, che mette bene in mostra il petto, lo offre al mondo con profumo misto di ingenuità e altruismo, con la punta del naso che indica la strada, giravolte, e braccia che fendono l’aria e si fanno accarezzare dalla brezza che producono, è fiera mente consapevole che punta al cielo, il cui animo sguazza nell’esistente, lo seziona, lo ascolta, lo manipola nella sua forsennata ricerca di verità che non si può trovare. Al massimo può apparire, così d’improvviso, come il genio dalla lampada in una coltre di fumo celeste.
<Ma, in fondo, siamo qui solo da quattro ore> dice Marcello.
<Che ore sono?>, Michele.
Io indico con la punta del naso l’orologio appeso alla parete, che si è nascosto al nostro sguardo per tutto questo tempo, o forse è davvero apparso solo ora, quando la mente ha sentito il bisogno di quantificare.
<Cominciamo> sentenzia Auretta.
…così danziamo in questo reticolato di fili visibili solo in controluce, strizzando gli occhi al punto giusto, danziamo ognuno a duo modo per qualche altra unità di misura, per qualche altra ora, per qualche altro chilometro, per una qualche quindicina di pagine.