UN VIAGGIO ACIDO NEL RETROBOTTEGA DEL NOSTRO ESSERE UMANI
#2 APPUNTI INTORNO ALLE PROVE DI CENERE di A. Sterrantino
di Elena Zeta
«Il contrario della reazione non è la rivoluzione, e ogni rivolta che rende impossibile la vita profonda della creazione è reazionaria»
Albert Camus, Sur le théâtre
Quello che amo del teatro è che il teatro parla sempre di noi.
Anche quando non ce lo aspettavamo, anche quando non lo vogliamo, anche quando l’avremmo evitato, il teatro ci mette davanti, più o meno dichiaratamente, a una delle mille facce del prisma del nostro essere.
In questo caso, la dichiarazione è una denuncia sparata ad altezza uomo: Cenere è un viaggio acido nel retrobottega del nostro essere umani.
Il retrobottega è uno spazio versatile, soggettivo, pauroso e magico allo stesso tempo, passato, presente e futuro nello stesso luogo.
Il retrobottega è dove si tiene quello che non va esibito in vetrina, e neanche sugli scaffali: è uno spazio pieno di cose dimenticate, che non servono più, pieno di cose in attesa, che prima o poi serviranno. È uno spazio di meraviglie tra cui perdersi, ma è anche il magazzino delle cose da sistemare, a cui prima o poi dobbiamo trovare un posto, ma che rimandiamo, rimandiamo, rimandiamo… e intanto restano lì a prendere polvere.
E nell’attesa che arrivi il momento giusto per fare ordine, che non arriva mai perché troppo disordine abbiamo pressato in quei pochi metri quadrati, ci dimentichiamo di cosa ci abbiamo stipato, e perché.
«Creare mi costa mille morti, poiché si tratta di un ordine, e tutto me stesso si rifiuta all’ordine. Ma senza questo morirei spappolato»
Albert Camus, Taccuini 1942-1951
Inizialmente la testa è sempre lì, ogni buco di attività porta il pensiero a studiare architetture perfette al millimetro per ogni scaffale, sicuri che metteremo tutto in ordine presto, prima o poi, un giorno. Poi, la fantasia diventa senso di colpa, e quell’accumulo di cose in sospeso ci getta nel panico, scacciamo il pensiero. Allora ci affaccendiamo a riempire ogni tempo morto, a sostituire quelle cose da conservare con altre più semplici, da consumare sul posto e poi buttare nel cestino più vicino, urgenze usa e getta che non hanno valore nel tempo. E un giorno, ormai allenati a dimenticare, ubriacandoci di pensieri analcolici, ingozzandoci di idee ipocaloriche, neanche più ci rendiamo conto che tutto questo non ci da nutrimento, che viviamo nella noia bulimica del fare per fare qualcosa.
«Alzarsi, lavarsi, vestirsi, uscire, tornare, mangiare, dormire»*
Ogni cosa vivente fugge dal dolore e dalla morte e si protende invece verso la sopravvivenza.
Noi umani non siamo esonerati da questo principio, anzi ci investe doppiamente: oltre alla morte del corpo, dobbiamo rifuggire anche da quella delle mente.
Siamo stati due mesi chiusi in casa per salvare i nostri corpi, ma che cosa ne è delle nostre menti?
Dicono che l’isolamento forzato abbia fatto emergere prepotentemente le contraddizioni del nostro tempo, ma che cosa ne abbiamo fatto di queste creature abissali? Delle rivoluzioni tanto invocate in digitale, delle speranze tanto nutrite di bit, dell’altruismo tanto cantato dai balconi?
Tutto stipato nel retrobottega.
Sotto strati su strati su strati di polvere.
Ma se potessi entrare nel retrobottega…
…cosa potrei trovare nel retrobottega?
Potrei trovare frustrazione, mentre in vetrina c’è fama e successo.
Potrei trovare invidia, mentre in vetrina c’è altruismo.
Potrei trovare abusi, soprusi, torture nel cortile di casa, mentre in vetrina passa il video di un afroamericano ucciso.
Potrei trovare paura, diffidenza, indifferenza, mentre in vetrina c’è accoglienza.
Potrei trovare aridità e vuoto, mentre in vetrina c’è attivismo.
Potrei trovare riflessione, mentre in vetrina c’è solo il nostro riflesso.
Troverei la noia e l’insoddisfazione, troverei il desiderio di fare e di essere, sommerso di cenere e polvere come nelle sabbie mobili.
Mentre in vetrina cloni di vita si ripetono, sempre nella stessa inerte azione moltiplicata all’infinito.
«Ti mostrerò la paura in un pugno di polvere:
grande e immenso è l’uomo
che pure si contrae e si consuma
in un pugno di polvere»*
*da Cenere, di Auretta Sterrantino
PH Giuseppe Contarini