#INTACITOQUADRANTE – APPROFONDIMENTI: A. STERRANTINO
INTERVISTA AD AURETTA STERRANTINO, AUTORE E REGISTA, A CURA DI VINCENZA DI VITA
Questo lavoro è la seconda parte di una poetica per l’impossibile, cosa significa?
Per una poetica dell’impossibile è il sottotitolo che lega Cenere e In tacito quadrante. Più di un sottotitolo, direi: una dichiarazione di intenti, quasi l’incipit di un manifesto che ha un duplice destinatario.
Da una parte è la dichiarazione cosciente della volontà di spostare il limite della nostra ricerca, la necessità di fare ancora un passo avanti. Sempre. Ogni volta più in là. Mettendo in crisi, dunque, ogni certezza acquisita negli anni. Perché lavorare con le certezze significa fare un lavoro d’ufficio e non è quello che abbiamo scelto. Questo ‘comandamento’ traduce una pulsione incontenibile e ci ricorda che dobbiamo sempre ascoltarla perché ci spinga ad andare oltre e ricercare nei terreni più argillosi risposte o, meglio ancora, nuove domande, senza aver paura di fallire pur mettendo il piede là dove il fallimento sembra l’unica possibilità.
D’altra parte Per una poetica dell’impossibile è un invito anche a chi ci guarda, un’esortazione a ricordare che non possiamo definire impossibile nulla che non abbiamo prima tentato di fare, un invito all’azione e al pensiero, un invito al movimento, a combattere l’inerzia che si è impossessata di noi e di questa nostra società profondamente ferita.
Qual è il rapporto del testo con l’ispirazione allo scritto di Beckett da cui è tratto?
Non conosco l’ispirazione che ha portato Beckett a scrivere Imagination Dead Imagine.
Ho scelto questa prosa breve come punto di partenza perché ho sentito l’urgenza profonda di affrontare il tema della morte dell’immaginazione, in un mondo digitale, digitalizzato, virtuale ma non virtuoso, in cui in realtà l’immaginazione è negata (o rifiutata, se non uccisa) e soppiantata dall’immagine. Un’immagine, o meglio un bombardamento di immagini violento, invadente e ormai quasi del tutto derivante dall’esterno, che elimina ogni possibilità di pensiero alternativo (per la nostra innata pigrizia si intende). La situazione che stiamo vivendo ha solo messo in evidenza questo enorme problema: nessuno fa più uno sforzo per immaginare (figuriamoci immaginare che l’impossibile sia possibile!) e così si finisce con l’adagiarsi sulle certezze. Le certezze però non solo rischiano di diventare una gabbia ma, oggi più che mai, possono essere una vera e propria condanna.
Dico oggi più che mai dal momento che, già prima della pandemia – che ha solo scoperchiato ed enfatizzato problemi preesistenti – le certezze erano ridotte all’osso: tutto cambia così rapidamente che di certo e concreto paradossalmente è rimasto solo l’istante, il quale per sua stessa natura è sfuggente. Allora da dove ripartire? In un momento in cui tutti si guardano indietro e si rifugiano nel passato, riciclando, riproponendo, rimaneggiando cose già dette, già viste, già fatte, a noi interessa provare a spingere tutto alle estreme conseguenze e mettere in relazione la morte dell’immaginazione con la crisi del tempo negato che stiamo vivendo. Un tema complesso e un proposito altrettanto problematico, come il nostro approccio richiede. Di Beckett si respirano di certo i temi, le suggestioni, le riflessioni, la scarnificazione, i piani alternativi del pensiero che si muovono dietro parole ridotte all’osso. E ancora una comunicazione apparentemente interrotta ma in realtà profondamente viva, il senso di attesa perenne che si sposa però a una costante ricerca, il “ritornotorno” che accompagna la mia visione ciclica dell’atto teatrale. Non è solo questa prosa breve a ispirare questo testo ma tanti scritti di Beckett, tra prose brevi e poesie, così come suggestioni da altri autori che hanno riflettuto sul tempo come D’Annunzio, Ungaretti, Montale e, ancora in piccola parte, Proust. Suggestioni e stimoli che nel tempo, dopo lunga riflessione e sedimentazione, hanno trovato il loro posto e ridisegnato i loro contorni all’interno della mia visione poetica e cifra stilistica, dando vita, come è stato per Cenere, a un nuovo testo: In tacito quadrante.
Come si è lavorato dalla scrittura alla messa in scena e quanto pesa la visione della regia nella fase di scrittura, per chi in questo caso è contemporaneamente investito del ruolo di drammaturgo e di regista?
La mia scrittura è sempre legata all’urgenza della messinscena. Non ho mai scritto un testo per il teatro che è rimasto chiuso in un cassetto. Inoltre scrivo sempre per dirigere io stessa quello che scrivo. Ciò significa che nel testo iniziale non sono indicati, ad esempio, alcuni passaggi in didascalia, elemento che rifiuto poiché rompe la poesia della parola e il mondo che tento di creare tra le pagine, introducendo un elemento estraneo, cioè l’autore. Già in fase di scrittura però molti elementi della regia sono a fuoco e la scrittura è a servizio della messinscena, dunque assolutamente drammaturgica, pur mantenendo delle caratteristiche linguistiche e stilistiche che possono apparire squisitamente letterarie.
Il passaggio dal testo alla messa in scena è stato naturale ma complesso, come ogni volta. Già in fase di scrittura mi era chiaro che mi trovavo davanti a un lavoro estremamente ostico e questo ha richiesto un lavoro a tavolino che si è rivelato più difficile del solito. Si è, infatti, reso necessario lavorare affinché l’attore attraversasse stati emotivi molto profondi ed esasperati e molto diversi tra loro e li filtrasse attraverso la tecnica per restituire la forza del sentimento, del vissuto, di un’infinità di livelli di sottotesto celati spesso dietro la singola parola, senza però esasperare il pathos, ma lavorando sulla concretezza, sulla lucidità, sul dialogo vivo, sulla parola sempre espressa nell’imminenza dell’hic et nunc, una parola vibrante di vita e non messaggera di storia.
A ciò si è aggiunto un lavoro sul corpo forse più impegnativo che mai, per uno spettacolo che lavora ancora una volta sulla circolarità in modo totale e che non consente pause né di pensiero né di tensione, divenendo per l’attore palestra viva e durissima. Il lavoro è costruito su un concetto di continuità e interruzione che viaggia tanto attraverso la parola spezzata, quanto attraverso il movimento, alla ricerca di un delicatissimo equilibrio che è difficile da conquistare e che è l’unico mezzo atto a creare il continuo movimento tra caos e armonia che governa l’intero spettacolo. Delicata è stata anche la ricerca di un equilibrio tra l’uno e il doppio e tra spettacolo e spettatori. La difficoltà di questo spettacolo sta proprio nel tentativo di creare suggestioni ed emozioni e portarle ai massimi picchi per poi sottrarle bruscamente e sostituirle rapidamente con altre, ma senza raccontarle o mostrarle. Semplicemente rendendole vive. Questo è stato reso più semplice dal lavoro fatto da Vincenzo Quadarella sulle musiche, che sono già molto eloquenti e con cui siamo in constante dialogo. D’altra parte Giulia e William hanno dimostrato grande disponibilità sposando il lavoro e accogliendo le richieste e le indicazioni con grande apertura, ragionando sempre in funzione dello spettacolo e mai in funzione del sé. Questo è passaggio fondamentale per chi lavora con me, perché è lo spettacolo a dettare le regole e bisogna avere la determinazione di seguirle, senza pensare a cosa ci piace o a cosa ci fa star bene, ma seguendo solo quella coerenza che rende “giusto” il lavoro. La collaborazione di tutti coloro che hanno partecipato alla realizzazione di questo lavoro è stata essenziale, come il lavoro instancabile e sempre puntuale di Elena Zeta.
Adesso mancano gli ultimi tasselli: luci e pubblico.
Qual è il valore civile e politico di questa nuova opera?
Questo, credo, non tocca a me dirlo.
Ph. Giuseppe Contarini – Fotoinscena