OFFRISI NUDI: L’ESSENZA DELL’ARTE

#MMB – DAL TESTO ALLA SCENA: INTERVISTA AD AURETTA STERRANTINO, REGISTA E DRAMMATURGO DI MINIMA MENTE BLU
a cura di Giulia C.

In occasione del debutto dello spettacolo Minima Mente Blu, II studio del I capitolo della Trilogia dell’Arte, il 17 settembre all’Area Iris di Ganzirri, abbiamo avuto l’opportunità di intervistare il drammaturgo, nonché regista, Auretta Sterrantino.

Da dove nasce l’idea di ripartire da Nudità. Chiaroscuro permanente per la realizzazione di Minima Mente Blu e perché la scelta di riprendere lo stesso tema?
L’idea era quella di riprendere la Trilogia dell’Arte, perché ho questo forte impeto a concluderla da molti anni. Per una serie di fattori concomitanti non c’era la volontà – o la possibilità – di rifare da capo Nudità, I studio di questo primo capitolo, ma si è pensato di partire proprio da questo spettacolo per farne un adattamento, una ‘traduzione’ a un personaggio. Così è nata l’dea di Minima Mente Blu che, come evidente dal sottotitolo, orbita intorno al tema della nudità, intesa in senso metaforico e oserei dire metafisico. Questo per me è un tema importante perché riguarda uno dei problemi più grandi della nostra società, o forse dell’essere umano: la costante tendenza a nascondersi, schermarsi, appiccicarsi addosso accessori, abiti, trucchi, immagini, atteggiamenti, parole, pensieri che non ci appartengono ma che servono a farci da scudo. Sembra quasi che la nostra necessità primaria sia quella di essere accettati piuttosto che entrare in relazione con l’altro, cosa peraltro impossibile senza una certa consapevolezza del sé.
Gran parte della mia riflessione si concentra proprio sull’incapacità, l’impossibilità di comunicare, sull’idea di essere estranei al luogo in cui ci si trova e spesso anche drammaticamente estranei a noi stessi, incapaci di riconoscerci intimamente, di soffermarci a chiederci chi siamo, dove stiamo andando o di cosa abbiamo bisogno. Per questo motivo per me è molto importante quest’idea di ricercare una nudità, intesa come pura essenza del sé, ed è molto importante in questo senso associare questa nudità all’idea che ruota intorno al concetto di Arte: se non ci si offre nudi all’Arte non si può proprio connettersi all’Arte. L’Arte richiede la nudità, altrimenti non è Arte: si deve essere nudi, puliti, integri con le proprie fratture, le ferite, le difficoltà, i problemi, con le proprie brutture perché in ognuno di noi ci sono elementi di estrema bellezza, di estrema poesia e paesaggi di estrema mostruosità, grettezza e oscurità, ma dobbiamo accettarlo e solo così possiamo trovare il nostro modo di collegarci all’Arte.

Nello spettacolo ci sono più riferimenti al tema dell’ospitalità, ripreso anche dal nome della sorella di Sibilla, Xenia, da cosa nasce questa scelta?
Lo spettacolo non tocca il tema dell’ospitalità nel senso più stretto del termine, però mi piaceva l’idea dell’incontro e dello scambio a essa sottesa: gli xenia sono i doni che riceve chi viene ospitato e i doni che porta chi è ospitato a chi ospita. Quindi è lo scambio necessario nell’incontro: nella cultura greca quando qualcuno veniva accolto da qualche parte portava un dono e chi lo accoglieva gli faceva a sua volta un dono. In questo senso il concetto di ospitalità viene celebrato all’interno del testo: Sibilla cerca riparo all’interno della casa dell’Arte, riceve dei doni e in cambio dà a sua volta dei doni; allo stesso modo nella relazione con la sorella dà dei doni e ne riceve nel tentativo di trovare un contatto. Questa idea dell’ospitalità è quella che è presente nello spettacolo: la ricerca di quel momento in cui si può entrare in comunicazione e incontrarsi.
Inoltre, secondo me, la sorella di Sibilla è per lei un po’croce e delizia: le ha fatto vivere delle cose stupende, le ha dato emozioni grandissime, ma allo stesso tempo è una condanna per lei, perché la porta a vivere un dolore infinito e ripetuto, nel chiaroscuro che ogni cosa comporta. Xenia porta doni ed è lei stessa un dono che, come il cavallo di Troia, al suo interno può celare insidie: ogni volta, nel consegnarsi o nell’affidarsi all’altro, l’insidia è dietro la porta, specialmente quando sollevi completamente te stesso da ogni responsabilità; invece affidarsi all’altro non vuol dire deresponsabilizzarsi ma ancora di più cercare di centrarsi.

In questo spettacolo vi è una componente importante, che è quella dei movimenti. Perché la scelta di non fermarsi alla parola?
Lavoro sul movimento da quando ho iniziato a fare teatro, allora però entrava in gioco come una delle componenti del meccanismo finale che si stava costruendo. Adesso non parlerei più di un teatro fatto di componenti, cioè di elementi che già da soli hanno un senso finito e si ‘pongono assieme’ per lo spettacolo, sommando i loro sensi su un senso dato. Direi invece che questi pezzi, non finiti di per sé stessi, sono frammenti de hanno bisogno uno dell’altro per raggiungere la completezza: uno spettacolo, dunque, per me è fatto di tanti differenti pezzi, ogni pezzo è fatto di altri pezzi e tutti insieme compongono un intero: non si può togliere uno dei pezzi senza compromettere l’intero, a meno che drammaturgicamente non ce ne sia la necessità. In quest’ottica per me il movimento è fondamentale, poiché mi serve a costruire nella scrittura scenica quella parte di narrazione che sottraggo totalmente alla parola.
All’inizio del mio percorso, per la mia elaborazione drammaturgica sono partita, in generale, da quello che per me è il modello primo e più alto – la tragedia greca – e, a mano a mano, mentre prima cercavo di costruire episodi e stasimi, mi sono resa conto che il mio linguaggio sono gli stasimi. Ho scelto un linguaggio lirico, in cui la parola tende a consegnare a chi ascolta stati emotivi, paesaggi interiori, contrasti, conflitti e veramente pochi elementi narrativi, che sono invece maggiormente affidati alla scrittura scenica, che per me, proprio perché la parola è elevata, fortemente ricercata, non può  essere fatta di movimenti quotidiani ma deve costituirsi di movimenti che compongono un linguaggio elevato, narrativo ma contemporaneamente anch’esso metaforico e metafisico, così come il linguaggio della parola e quello della musica, tutti elementi che confluiscono nella partitura drammaturgica.  Da questo nasce progressivamente per me la scelta di ragionare più sul linguaggio della danza, declinata come se fosse parola teatrale, con una forza diversa, con degli accenti specifici, con delle cadenze e delle movenze specifiche, che magari, se si guarda lo spettacolo dal punto di vista della danza pura, potrebbero anche apparire scorrette, ma è necessario che il movimento entri in dialogo con tutta una serie di aspetti rilevanti drammaturgicamente e anche tecnicamente. Per me solo così si può costruire quello che è lo spettacolo a cui aspiro, cioè uno spettacolo che sia sintesi di diversi strati, tanti quanti sono gli strati della ricerca svolta, uno spettacolo a ‘cipolla’, in cui qualsiasi tipo di spettatore, in un modo o in un altro, si possa ritrovare o comunque da cui si possa sentire sedotto, arrivando a sbucciare la cipolla fino allo strato che vuole sbucciare. Affinché lo spettacolo venga fatto per chi lo guarda, è necessario agire su degli strati. Per me ci vuole la sintesi di tutti questi elementi per poter costruire quella che è la mia visione: l’utilizzo di ogni elemento si sviluppa e cambia nel tempo, soprattutto in base alle esigenze che ciascuno spettacolo presenta di volta in volta. La parola chiave è ‘ricerca costante’: non voglio mai che una cosa sia uguale a un’altra. Significherebbe comodità e la ricerca rifugge la comodità.

In Minima Mente Blu anche il colore ha una voce. Come l’importanza di questo colore si declina con gli stati d’animo che scuotono Sibilla?
In un modo bizzarro. Ciò che risultava evidente sin dall’inizio è che non ci dovesse essere alcun colore, perché per esserci tutti i colori non ce ne doveva essere nessuno. Infatti all’inizio Sibilla doveva avere un costume rosso, poi non è stato più così perché se ci fosse stato un costume rosso non avremmo visto alcun altro colore e quindi non avremmo attraversato tutti gli stati d’animo che vengono attraversati. Secondo me si attraversano i colori attraverso il movimento, attraverso la parola, attraverso la musica. L’unico modo per attraversare tutti i colori è toglierli, evocandoli negli spettatori, nel loro sguardo, nel loro animo, sottraendoli alla realtà per consegnarli all’emozione. Nudità aveva una scenografia imponente e molto chiara, che portava in scena tutti i colori che, contenuti in delle fiale, creavano una sorta di pantone; in Minima Mente Blu è e deve essere tutto molto più evocativo.

Nella pittura di Kandinskij il blu assume il significato di spiritualità. E per Auretta Sterrantino?
Per me il blu di Nudità, ovvero il blu cobalto, è profondità e tensione verso l’infinito. Ma la mia risposta potrebbe cambiare a seconda del momento in cui mi viene posta la domanda.

Nello studio del geometrismo pittorico di Kandinskij cosa l’ha affascinata per farlo diventare quasi un mantra per Sibilla?
Io amo Kandinskij come pittore da sempre, amo la pittura astratta, è il linguaggio con cui mi cimento per gioco da quando ho iniziato a scarabocchiare su qualsiasi tipo di quadernetto. Più che sul suo modo di dipingere però, mi sono concentrata sulle sue teorizzazioni che riguardano non solo l’arte pittorica (Kandinskij era anche autore teatrale) ma anche la ricerca di un linguaggio totale. Ciò che mi affascina dell’Astrattismo è quell’andare alla ricerca di un’essenza che non è intrappolata in una forma canonica, cercare di andare al cuore delle cose senza avere la presunzione di dire che quella forma convenzionale che tutti attribuiamo a una data cosa sia la forma esatta o la rappresenti inequivocabilmente. Se guardando una forma tutti quelli che la osservano la riconducono a un cerchio, non vuol dire che questo sia un cerchio o solo un cerchio, molto probabilmente non lo è. A me interessa andare oltre la forma che viene inizialmente percepita e tento di farlo rompendo la regola e mettendo in connessione tutti gli elementi, cercando di capire cosa comunica ogni elemento che compone quella forma, quel concetto, quell’idea che vorrei rappresentare. Anche l’approccio metodico e metodologico di Kandinskij mi affascina: il suo interrogarsi costante ma non interrogare solo sé stesso, cercando sempre il confronto, come è accaduto con Schönberg e tanti altri artisti; quell’essere dentro il processo artistico senza volerlo sviscerare da soli, senza essere narcisisti o autoreferenziali in una ricerca che, ti rendi conto, ti supera. Forse solo nel dialogo si può trovare una risposta e, quindi, tante altre domande che ci possono avvicinare a un’altra risposta, sempre temporanea in quanto madre a sua volta di altre domande.

 

MINIMA MENTE BLU
Accordi sintetici per una nudità d’essenza
II studio su V. Kandinskij e A. Schönberg
I capitolo della Trilogia sull’Arte
con Giulia Messina
regia e drammaturgia Auretta Sterrantino
musiche e progetto audio Vincenzo Quadarella
disegno luci Stefano Barbagallo
assistente alla regia Elena Zeta
ufficio stampa e comunicazione Marta Cutugno
produzione QA-QuasiAnonimaProduzioni / Nutrimenti Terrestri

visto al CORTILE TEATRO FESTIVAL di Messina
Diretto da Roberto Zorn Bonaventura
Castello di Sancho

Ph. Giuseppe Contarini – Fotoinscena