MATRIOSKA
liberamente ispirato a “Follia” di P. McGrath
Regia e drammaturgia: Auretta Sterrantino
Musiche originali: Filippo La Marca
Opere pittoriche: Nino Bruneo
Realizzazione scene e costumi: Valeria Mendolia
con
(in ordine alfabetico)
Alessio Bonaffini: Victor
Loredana Bruno: dott. Raphael
Oreste De Pasquale: Edgar
Giada Vadalà: Stella
Assistente alla regia: Martina Morabito
Aiuto Scenografo: Felice De Pasquale
Ti sei mai guardato allo specchio e ti sei chiesto chi sei?
Quattro personaggi: due uomini e due donne.
Quattro verità, una sola storia.
Una spirale vorticosa che racchiude una realtà inattesa.
Un percorso frastagliato dai contorni sfumati.
Una ricerca spossante, un confronto spietato che si consuma lentamente.
La messinscena è una pièce originale, un nuovo esperimento di scrittura che raccoglie spunti da scrittori di indiscutibile spessore, giganti del panorama letterario e teatrale, come Guy de Maupassant (Berta e La signora Hermet), Beniamino Joppolo (La follia sia dunque autentica), Gabriel Garcia Marquez (Come si scrive un racconto), senza rinunciare a suggestioni contemporanee, quali quelle suscitate da Marie Cardinal (Le parole per dirlo), P. McGrath (Follia) e S.J. Whatson (Non ti addormentare).
Il testo si configura come una scrittura nuova e completamente originale che mischia una forma dialogica serrata e incalzante con pause liriche di completa sospensione. Questo alternarsi fra dilatazione e contrazione (che richiama la struttura della tragedia classica, trasportandola in una formula assolutamente moderna) è sintetizzato dall’incontro/scontro fra movimento, musica e parola, e conferisce alla pièce un respiro particolare, amplificandone i piani spaziali ed emotivi e moltiplicando sfumature e possibilità percettive.
Ritmata come un cuore che pulsa, anche contro la nostra volontà, la messinscena rappresenta, infatti, un flusso continuo che insegue la vita senza mai riuscire ad afferrarla davvero.
I quattro punti di vista offerti convergono infine su un’unica verità, rappresentandola e declinandola in modo profondamente diverso.
I personaggi si comportano in scena come un coro di voci dissonanti, un coro che si nutre di contrasti e si alimenta di reazioni. Un coro di corpi che danzano, lottando contro una verità che si contorce dentro le viscere, impossibile da zittire. Troppo dolorosa però da sopportare. Allora che fare? Il tentativo, fallimentare, è quello della fuga, una fuga che frammenta anima e psiche, costringendo al confronto, alla scoperta dell’altro e dunque alla scoperta del sé.
Chiusi in una bolla nella quale ogni codice condiviso è negato, la nudità dell’anima diventa un’ulteriore ferita insanabile e ogni tentativo di comunicazione abortisce tristemente. Qualsiasi sforzo di espressione non trova terreno fertile, schiacciato dalla cecità dell’altro, dall’altrui sordità.
Assorbiti in una scena che rappresenta la proiezione della mente, al confine tra realtà e psicosi, i personaggi continuano a muoversi ossessivamente in tondo, ruotando incastrati in un complesso meccanismo di ingranaggi, un sistema di “doppi” all’interno del quale ogni componente trova la propria motivazione nell’inseguimento dell’altro, che non potrà mai raggiungere davvero. Nel momento in cui diventa evidente l’inanità di ogni tentativo di contatto, al movimento si sostituisce una fissità paralizzante. Il percorso, per ciascuno assolutamente divergente negli esiti, porta a una totale metabolè, una trasformazione interiore che incrocia ulteriormente punti di partenza e di arrivo.
E quando tutto sembra farsi reale, concreto, effettivo, allora diventa troppo e si ricomincia da capo.