«MORTO TUTTO CHE RESTA OLTRE LA MORTE?»
Note di regia a “Prometheus. O del fuoco, maestro di ogni arte” di Auretta Sterrantino
«Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie»
G. Ungaretti
Quando ho iniziato a pensare, insieme con Vincenzo Quadarella, a quale spettacolo dedicare alla memoria di Fernando, come segno tangibile del nostro desiderio di continuare il suo progetto – declinandolo attraverso la nostra sensibilità – una delle prime cose a cui abbiamo pensato è stata un suo testo, un testo che Fernando mi fece leggere intorno al 2009.
Tuttavia, la scelta non ci sembrava giusta, perché avrebbe reso giustizia al Fernando drammaturgo, e non al Fernando visionario e padre di una chiara idea di nuovo umanesimo che volevamo ricordare. Non uno spettacolo per celebrarlo, dunque, ma uno spettacolo per ricordare il senso dei suoi mille progetti all’interno di un quadro più generale, tentando di iniziare a tracciare le linee guida per un nuovo manifesto culturale.
La scelta di lavorare sulla figura di Prometeo ci è sembrata, allora, la più centrata, dal momento che Fernando proprio a Prometeo aveva intitolato un importante progetto legato ai giovani e avviato con la Fondazione INDA, Istituto Nazionale del Dramma Antico, di cui è stato sovrintendente dal 2005 al 2012.
“I fuochi di Prometeo” (http://www.indafondazione.org/it/indagiovani/progetto-promete/) avevano la funzione di creare una rete di licei nei quali approfondire le tematiche e gli ideali del mondo classico attraverso una serie di iniziative. La stessa RAI, nel convegno a lui dedicato organizzato in ottobre del 2016, ha scelto la figura di Prometeo per un percorso di riflessione intorno all’operato di Balestra, che per me è stato maestro prezioso e con il quale Vincenzo ha lavorato per tutto il periodo INDA.
La figura di Prometeo è senza dubbio una delle più conosciute del panorama mitico classico o di quella che oggi scolasticamente viene definita, impoverendola, mitologia e che non è mito ma racconto legato del mito, materia fluida e densa, in continuo movimento.
Sin da ragazzina Prometeo ha esercitato su di me un fascino forte per la sua ambiguità e per l’impossibilità di operarne una reductio ad unum, tanto è poliedrica la sua figura e ricco di varianti il suo mito. Ho avuto la fortuna di vederne due allestimenti al Teatro Greco di Siracusa all’interno del Ciclo di Spettacoli Classici organizzato proprio dall’INDA (http://www.indafondazione.org/it/la-stagione/2012-2/indaretro/): il primo nel 1994, regia di Antonio Calenda, traduzione di Benedetto Marzullo (che del testo nega la paternità eschilea), con Roberto Herlitzka; il secondo nel 2012 per la regia di Claudio Longhi, la traduzione di Guido Paduano, con Massimo Populizio.
Due letture molto distanti e capaci di portare alla luce modi di intendere il mito di Prometeo e la tragedia di Eschilo molto diversi.
Quando ho riletto il Prometeo di Eschilo, come primo passo per iniziare il mio lavoro, tanto di scrittura che di studio per la regia, mi sono resa conto che a voler restare molto vicini a Eschilo e alla sua struttura, l’unica operazione interessante da poter fare era quella di scrivere uno spettacolo grottesco. Non era quella, però, la mia intenzione.
Leggendo e rileggendo mi sono resa conto che i punti nodali della drammaturgia erano due: innanzitutto la dicotomia tra Efesto e Prometeo, forse in Eschilo apparentemente meno accennata e sicuramente poco discussa in letteratura, ma di certo abbastanza evidente a un’attenta lettura. E poi il protagonismo in absentia dell’onnipotente Zeus.
Ho iniziato dunque a lavorare su questi due punti.
Le letture successive, soprattutto Gide e il Frankestein di Mary Shelley, hanno spostato la mia attenzione sulla non curanza delle conseguenze nell’attuazione di un progetto e sull’attaccamento alla vita inteso dall’uomo in modo troppo soggettivo e personalistico, divenendo un allontanamento dal principio stesso della vita per diventare un disperato tentativo di sopravvivenza dell’io.
“Prometheus. O del fuoco, maestro di ogni arte” rappresenta un modo, mi permetto di dire, diverso di leggere il mito di Prometeo, una variante e al tempo stesso una riscrittura che tenta di sviscerarne l’attualità insita senza forzature né testuali né nella scrittura scenica.
Il fulcro sta nel contrasto tra due figure che si trovano agli antipodi del pensiero: Efesto e Prometeo.
Efesto è interpretato da un colossale Sergio Basile, capace di abbrivi forti ed emozionanti e di cambi repentini e profondi nel pensiero e nel sentire. Lavorare con un attore del calibro di Sergio Basile, non solo dal punto di vista delle sue doti interpretative, ma anche e soprattutto per l’elevata caratura intellettuale che lo distingue, è stato interessante e stimolante. Cercare di capire il modo per entrare nel suo ragionamento e aprirgli una strada verso il mio. Guadagnare la sua fiducia, confrontarci secondo schemi e linguaggi diversi, da quelli messi in atto finora ha portato a un arricchimento di tutti.
Il suo Efesto è stanco e dolente. Profondamente solo. Votato a Zeus. Conservatore sano, amante profondo del principio di vita, stretto osservatore del kosmos nella sua declinazione di bello e giusto, un’eukosmia ideale a cui tendere e che per Efesto risiede nel rispetto di ruoli e gerarchie, perché per lui è inconcepibile l’idea che chi governa non lo faccia per il bene di tutti, per il raggiungimento di una condizione favorevole di armonia. Efesto è così, guarda in lungo, proietta gesti, sofferenze, sacrifici, progetti verso un quadro ampio al quale tendere.
Al contrario Prometeo – un Oreste De Pasquale messo alla prova su corde nuove, per un’interpretazione totalmente irriverente del titanico Prometeo, nella mia visione ribaldo, superiore, menefreghista e a tratti superficiale – è arso da un impeto che lo porta a cercare di ottenere quel che vuole, in qualsiasi modo. Per Prometeo non è importante il mezzo, ma solo il fine immediato. Non lo riguardano le conseguenze di quanto metterà in moto con le sue scelte, non ragiona nell’ottica di un quadro più grande, pensa all’immediato filtrato attraverso le sue velleità, i suoi pensieri, i suoi «sregolati intendimenti».
Una lotta “titanica” questa che si consuma nell’antro oscuro della fucina di Efesto appena trascorsi i trentamila anni di pena ai quali è stato condannato Prometeo. Uno scontro dialettico, violento e teso a tratti, ma principalmente tutto pensiero e logos, sviscerato al cospetto di una Bios morente ma incapace di rifuggire il suo connaturato impulso alla vita.
Bios – una Loredana Bruno densa ed empatica – rappresenta nella mia lettura il principio vitale: Vita, Fuoco, Terra e Giustezza. Una lettura capovolta della Bia di Eschilo, la forza violenta che è muta persona e boia con Kratos, il suo doppio.
Bios si esprime in una forma che supera persino il divino: la forza del gesto e l’ultracorporeità della parola vorrebbero rappresentarne il principio di immanenza e contemporaneamente una trascendenza che coinvolge tutti, perché tutto è vita.
La ricerca da parte di Prometeo di scatenare un moto in Efesto per tentare di recuperare una situazione difficile e dolorosa, sono la traccia di un percorso che usa la maieutica e la sofistica, contrapponendosi a una visione platonica della vita.
Un materiale di questa consistenza è denso e difficile da dipanare. La scrittura come sempre si è concentrata sul recupero del senso, l’adesione tra significato e significante di cui ormai non si ha più consapevolezza.
Della necessità del recupero del sema per aderire alla vita è fatto questo testo di urgenze e riflessioni, che cerca una metrica e un dire non quotidiano, perché il quotidiano a teatro dovrebbe riferirsi esclusivamente alla pratica di andarvi tutti i giorni.
Nessun orpello. Un richiamo al greco come lingua del pensiero che attraversa tutto il testo, evocando principi e concetti a noi ormai totalmente estranei e dei quali dovremmo riappropriarci con urgenza. Anche la musica è stata scarnificata. Dalle gloriose idee sinfoniche da cui io e Filippo La Marca siamo partiti, siamo approdati al rumore metallico di un ultramoderno post-apocalittico. Una decadenza stanca e lassa, adagiata su se stessa. Un suono di disturbo e di sentenza, i cui il suono è rumore di ambiente, ma soprattutto è suono di un pensiero che si rimette in moto e viaggia nel processo del logos tutto teso verso una libertà negata, divenuta sinonimo di coercizione.
Nella stessa direzione si è mosso lo studio della scena – realizzata da Valeria Mendolia, come anche i costumi – una scena imponente ma essenziale che ha cercato nel simbolo il senso del crollo e della distruzione di un fluire che precipita in forma ciclica destinata a un’implosione definitiva, forse.
Allo stesso modo le luci – disegnate da Stefano Barbagallo – lavorano su profondità e materia e sul senso misterico di tutto ciò che non siamo in grado di comprendere e che trascende sensi e logica. Luci che raffreddano e proiettano in uno spazio altro, all’interno del quale spero possa immergersi anche lo spettatore.
Il senso della continuità, della ciclicità, dell’actio in medias res e senza soluzione di continuità sono l’elemento irrinunciabile in questa tragedia dell’azione che è poi la fotografia di una passività tutta moderna, attraversata contemporaneamente dalla tragedia del pensiero, o meglio dell’assenza di pensiero. Noi restiamo impotenti a osservare lo scorrere inesorabile del tempo e della vita, come se fosse energia che si disperde. Collaboriamo alla sua distruzione, concorriamo ad accelerare il processo, ci esimiamo da ogni forma di responsabilità attiva.
Facciamo guerre per soldi, interessi economici, potere, influenze, forse religione, forse. Ci uccidiamo, ci massacriamo o peggio ci ignoriamo. Chiusi in un egoismo senza scampo, viviamo una vita intrappolata in una routine comoda e confortante che dalla nascita ci conduca alla morte, senza comprendere il ruolo più alto a cui siamo chiamati in un quadro più ampio in cui ogni nostra azione comporta conseguenze per la vita futura. Chi ci governa ha abbandonato ogni possibilità di programmazione verso un progetto complesso e complessivo, concentrandosi su politiche del potere personalistiche e bieche. Chi tenta di resistere soffre, ma la resistenza è d’obbligo.
Lavorare a questo spettacolo non è stato facile per la sua polisemia, la implicazioni filosofiche che lo attraversano, la voglia di renderlo immediato senza impoverirlo. La squadra che mi ha affiancato è stata fondamentale per dipanare ogni nodo e, davvero, i nodi sono stati tanti, lo abbiamo colto bene tutti e ne ha avvertito l’imponenza anche Elena Zeta, che mi ha assistito. In primis la necessità di non presentare una soluzione ma un conflitto di punti di vista che si scontrano e in qualche misura si completano, senza dare risposte, ma sollevando solo ed esclusivamente una lunga serie di domande. Perché è da questo che si deve ripartire. Dalla necessità di interrogarsi.
L’esperienza lunga e diversificata di Sergio è stata linfa nuova di cui nutrirsi per ciascuno di noi. Ognuno ha accettato una sfida a cui era necessario rispondere, mettendo in campo ogni mezzo a disposizione.
Ciò che il teatro sempre insegna e conferma è la possibilità di diventare COMPAGNIA e tendere a un obiettivo comune che sempre supera l’esigenza del singolo per tendere a un’idea complessiva che ci trascende, tutti. In questo senso il teatro stesso è fuoco, maestro di ogni arte e dunque, di vita.
Ringrazio tutti quelli che hanno lavorato per questo Prometheus, che sento essere una fatica imponente ma necessaria.