UN CONFLITTO INSOLUBILE DINANZI ALL’ALTARE DELLA GUERRA

#SETTE – DAL TESTO ALLA SCENA: INTERVISTA AD AURETTA STERRANTINO, REGISTA E DRAMMATURGO DI SETTE
a cura di Giulia Cacciola, Sara C., Francisca Mangano, Maria Francesca Visalli

Il 28 e il 29 novembre è andato in scena SETTE, di QA-QuasiAnonimaProduzioni in collaborazione con Nutrimenti Terrestri, presso la Sala Laudamo del Teatro Vittorio Emanuele di Messina. SETTE è il nuovo spettacolo del regista e drammaturgo Auretta Sterrantino che parte dallo studio della tragedia di Eschilo Sette contro Tebe, con l’obiettivo di «far dialogare la struttura drammaturgica della tragedia con il linguaggio contemporaneo»; un percorso iniziato a Messina e proseguito a Malaga, Coimbra, Valencia e Barcellona. In occasione del debutto dello spettacolo a Messina, abbiamo intervistato la regista in merito allo studio da lei condotto sul rapporto tra azione, movimento e linguaggio scenico, «frutto di un minuzioso lavoro di controllo e precisione», anche in relazione ai suoi spettacoli precedenti.

Come mai sono stati scelti proprio Eteocle e Polinice per attraversare i temi della giustizia, della lotta per il potere e della fratellanza da te citati nelle note di SETTE?
Non siamo partiti da un tema da rappresentare per poi scegliere i personaggi, piuttosto il contrario. Siamo partiti dai personaggi e la scelta è ricaduta su Eteocle e Polinice. I due fratelli rappresentano un conflitto insoluto e insolubile di grandissima attualità, che consente sia di lavorare sul tema politico sia, dato il legame di parentela, di sviscerare relazioni e sentimenti, influenzati e condizionati dall’aspetto politico, che riguardano la sfera privata: una sorta di braccio di ferro tra ciò che si prova e si vorrebbe fare e ciò che la situazione politica e il contesto sociale ‘obbligano’ a fare. Il verbo ‘obbligare’ è tra virgolette perché non si tratta di una costrizione, di una coercizione, quanto piuttosto della convinta necessità di agire secondo un codice etico comportamentale. Quest’ultimo risponde al sistema culturale del tempo in cui si è immersi e – a differenza del contemporaneo – si muove non solo a salvaguardia di valori e virtù del guerriero, ma anche a protezione della comunità. Essere convinti, però, di agire nel modo migliore – concetto che coincide in questo ambito con ‘opportunamente’ – non significa sempre lo si stia facendo davvero. L’intenzione dell’azione e la portata delle conseguenze dell’azione stessa non si muovono sempre nella stessa direzione. Nel caso di Eteocle e Polinice tutti questi temi molto delicati escono allo scoperto, trascinandosi un problema di responsabilità e autoconsapevolezza, tasto dolente del mondo contemporaneo.

Da dove nasce l’idea di far interpretare a due attrici il ruolo di due personaggi maschili?
Non ho mai guardato all’attore come a un uomo o a una donna, per me può serenamente vestire, rappresentare, interpretare il genere del proprio personaggio. Di certo è un’operazione che richiede un grande sforzo ma è questo che mi interessa: nulla dell’attore deve essere caratteristica del personaggio. In questo caso rappresentare un conflitto e un rapporto tra uomini, con modi e tempi da uomini filtrati attraverso un corpo femminile – declinato attraverso l’interpretazione (e non la finzione) al maschile – offre l’opportunità di tentare di spostare il punto di osservazione del conflitto indagato. Inoltre la presenza in scena di due figure attoriali femminili sottolinea l’importanza dell’elemento femminile all’interno dei Sette contro Tebe di Eschilo: nella tragedia il coro di donne di Tebe è di fondamentale importanza nel conflitto con Eteocle in relazione all’esercizio della sua autorità per la salvezza della città e, contemporaneamente, concorre a portare in scena il tema della paura per la guerra incombente con le sue conseguenze efferate. Questa riflessione, nei termini fortemente emotivi in cui è proposta dal coro, non potrebbe essere di Eteocle, il quale non può per status e funzione politica abbandonarsi alla paura ma deve pensare esclusivamente alla salvaguardia di Tebe.

Quali punti di incontro ci sono tra gli studi fatti per la realizzazione di questo spettacolo e quelli per gli spettacoli passati?
Lo studio apre sempre nuove porte, nuovi orizzonti, nuove prospettive non solo in una proiezione in avanti ma anche rispetto al passato poiché spesso fa luce su passaggi rimasti oscuri o contribuisce a fornire nuovi modi per interpretarli. Certamente un punto in comune è il metodo, dal momento che il campo di indagine coincide con gli studi condotti da una prospettiva scientifica.
Direi che i punti di incontro sono principalmente due: innanzitutto la riflessione sulla necessità di non risolvere il conflitto tragico, grande punto di partenza di una drammaturgia che non vuole offrire parabole né soluzioni ma solo interrogativi che scaturiscano da un’esperienza viva e sconvolgente; e secondariamente la riflessione sulla messa in dialogo di temi relativi all’antico con il contemporaneo, senza ricercare un’attualizzazione – che spesso è anche banalizzazione – e mantenendo una forza del segno pari alla forza della parola di Eschilo.

In questo spettacolo è più presente il movimento o la parola?
Come sempre il tentativo è di far sì che tutti gli elementi concorrano a creare un unico linguaggio che esprima senso in relazione all’azione. Per questo non può e non deve esserci un elemento dominante ma ciascun elemento – la parola, il corpo e il gesto simbolico, il movimento significante, la musica, il colore, il costume, le figure disegnate, la geometria, la gestione dello spazio nonché la sua configurazione – deve svolgere il proprio ruolo in dialogo con l’altro all’interno di un sistema coerente e fortemente significante.

A parte l’uso della parola e del movimento, quali punti di contatto ci sono tra questo spettacolo e gli altri di cui parli nelle note di SETTE?
Al di là dell’uso di tutti gli elementi – non solo parola e movimento – nel senso sopra discusso, c’è sottotraccia uno studio del mito, che percorre sempre i lavori che porto in scena, ma soprattutto uno studio che riguarda il linguaggio scenico.
Lavoro da sempre sulla tragedia greca ma questa è la prima volta che parto da un testo tragico e il lavoro che porto avanti da sempre è quello di far dialogare la struttura drammaturgica della tragedia con il linguaggio contemporaneo. Inizialmente lo facevo alternando parti in prosa con parti liriche seguendo l’andamento di episodi e stasimi, negli ultimi anni invece tutto il testo cerca un preciso lirismo e l’uso della parola è dichiaratamente poetico nonostante si smarchi completamente dalla narrazione, cercando di rappresentare l’arco emotivo in relazione allo sviluppo dell’azione, affidata invece principalmente al linguaggio scenico.
In questo caso la parola, fortemente evocatrice, ripercorre in alcuni tratti elementi fondanti del mito di Tebe e dei Labdacidi ma sempre tentando di sfuggire alla narrazione: principio fondamentale per me è quello postulato da Aristotele per cui la tragedia è rappresentazione di un’azione e non la sua narrazione, modalità dell’epos. Questo è il lavoro che si sta portando avanti con molta fatica legato al lavoro sul movimento, il quale cerca una continuità e una consequenzialità che richiedono un minuzioso lavoro fisico di controllo e precisione.

C’è un filo conduttore che collega le sorti di Caino e Abele, protagonisti di Caino. Homo Necans, con quelle di Eteocle e Polinice protagonisti di SETTE?
Certamente si tratta di due coppie di fratelli con un rapporto fortemente conflittuale ma le dinamiche sono completamente diverse, così come sono differenti i contesti socio-culturali che li hanno prodotti, per altro uno ancora totalmente privo della prospettiva politica come poi partorita dalla grecità.
Il rapporto e il conflitto sviscerati dai due fratelli in Caino. Homo Necans è assolutamente personale e riguarda il rapporto con l’altro e il rapporto con sé stesso in relazione anche al rapporto con Dio e con l’esistenza. Quello tra Eteocle e Polinice, invece, va oltre il piano personale ed è tutto filtrato dalla questione politica, pertanto si muove in direzioni totalmente diverse: proprio la tensione tra pubblico e privato, tra necessità politica e sentimenti personali, lascia emergere con estrema drammaticità una sfera emotiva di grande portata ma di rilevanza secondaria rispetto al ruolo che ciascuno dei fratelli è chiamato a compiere.

Come emergono i temi della classicità quali la Necessità, la Sacralità, la Giustizia e il Potere in questo spettacolo?
Sono temi che attraversano in modo prepotente il testo da cui siamo partiti, temi cari a Eschilo e ancora, drammaticamente, di sconvolgente attualità. Dunque si è cercato di farli emergere da ogni parola, dalla musica, dalla costruzione scenica, dal movimento.

Quale ambiente verrà presentato al pubblico?
Quello rappresentato è un mondo a lutto perché sta per essere sacrificato sull’altare della guerra che al di là di torti e ragioni, porterà lutti, dolori, sofferenze, distruzione. Una devastazione totale. L’atmosfera è lugubre e insieme straniante ma, contemporaneamente, apre infiniti possibili squarci, dipingendo un immaginario vasto e differentemente declinabile da ciascuno spettatore.

 Che tipo di lavoro verrà effettuato per la realizzazione dello spazio scenico in modo da richiamare il tema del conflitto?
Come ormai negli ultimi lavori non ci sarà scenografia, ma solo un preciso disegno dello spazio scenico che segue una precisa geometria di linee che si scontrano, che si incrociano, formando angoli acuti che si puntano, che disegnano un piccolo spazio impenetrabile. Uno spazio angusto da difendere che è infine teatro di una guerra che non si può (non si vuole?) scongiurare.
Per il resto tutto è creato con la costruzione scenica dei corpi in movimento, della musica, delle parole.

 Dato il titolo dello spettacolo, come verrà richiamato il numero SETTE in scena?
Sette sono le porte di Tebe, sette i guerrieri dell’esercito di Polinice (Polinice compreso) sorteggiati per combattere a ciascuna porta, e sette sono i guerrieri che Eteocle opporrà a ciascuna porta, sé stesso compreso. La settima porta è la porta alla quale si scontreranno i due fratelli. Sette sono le ore in cui si sviluppa l’arco dello spettacolo: una notte intera, prima che arrivi l’alba.

 

Ph. Fabio Crisafulli