LA BELLEZZA NASCOSTA NELLE PICCOLE COSE

INTERVISTA A  CARLO DE RUGGIERI PER IL  CORTILE TEATRO FESTIVAL 2021
a cura di Elena Russo

Il 15 Luglio in occasione della replica di Ogni bellissima cosa al Cortile Teatro Festival, tutti noi membri dell’Osservatorio Critico di QA-QuasiAnonimaProduzioni, abbiamo avuto la possibilità di parlare e confrontarci con Carlo De Ruggieri, attore dello spettacolo, scritto da Duncan Macmillan e Johnny Donahoe, tradotto e diretto da Monica Nappo e prodotto da Nutrimenti Terrestri.

 

Nello spettacolo Ogni bellissima cosa il protagonista stila una lista di cose per cui vale la pena vivere. Quali sono per te queste cose?
Questo spettacolo mi ha aperto gli occhi su alcuni segreti dell’esistenza, come sulla capacità di cogliere la bellezza delle cose più semplici, meno appariscenti. In alcuni momenti problematici della vita, credo capiti a tutti, si entra in crisi da un punto di vista emotivo e c’è una reazione per cui improvvisamente si inizia a rivedere la vita come se fosse la prima volta. Allora ogni piccola cosa ti appare molto più vivida, più vera e perfetta, con una forza che la consuetudine dei giorni, a poco a poco, le aveva fatto perdere. È un po’ quello che accade nel racconto di questo spettacolo in cui la bellezza è nascosta in piccoli eventi e nelle piccole cose. Non a caso il protagonista del racconto inizia a fare un elenco da quando è bambino, quando tutto gli compare per la prima volta ed è come riscoprire sempre un nuovo inizio.

Il protagonista bambino attraversa una serie di difficoltà. Secondo te la fatica è un rito di passaggio?
Sì, certamente sì. Il passaggio non avviene se non c’è una reazione che implica anche una fatica. La scelta è quella di affrontare un problema oppure subirlo, se scegli di affrontarlo costa fatica sia fisica che emotiva ma anche mentale.

Che rapporto hai avuto con questo testo?
Quando Monica Nappo mi ha proposto il testo ho avuto, prima di tutto, paura di far fronte all’esigenza di instaurare un rapporto diretto con il pubblico e di gestire le improvvisazioni, quindi di avere un atteggiamento coinvolgente, per così dire ‘da animatore’, però per superare la paura ci si mette in gioco e così ho fatto.
C’è anche un discorso riferito al tema del racconto che è quello della depressione e del suicidio: anche non avendo vissuto personalmente questa esperienza, credo che noi tutti possiamo procedere per approssimazioni e quindi immaginare qualcosa che ha a che fare con la depressione, che si tratti di noi stessi o di una persona a noi cara. Ho riflettuto su questo e su come essere credibile nei confronti di chi, come è capitato, ha vissuto un’esperienza di quel tipo: incrociando i suoi occhi devi vedere che la persona riconosce in te una figura che ha capito cosa hai vissuto. Ho lavorato su elementi che in qualche modo mi potevano indirizzare, anche emotivamente, a riprodurre la verità dell’esperienza drammatica e questo ha funzionato per avvicinarmi il più possibile al pubblico e alle loro storie.

Nello spettacolo è fondamentale la relazione con un pubblico ogni volta diverso. Cosa significa per te come attore?
Il pubblico è uno dei punti essenziali e fondamentali dello spettacolo. Ovviamente interagire con gli spettatori mette un po’ di paura all’interprete del testo perché si lavora su due piani che sono contrastanti: c’è il filo della storia da tenere sempre a mente e poi si aprono delle parentesi di improvvisazione e riuscire a dominare il testo in modo da potersi godere quest’ultime è il primo ostacolo da superare. Una volta che si ha la sicurezza dell’arco narrativo, si può anche giocare e divertirsi col pubblico, dopodiché si raggiunge l’obiettivo finale del testo, ovvero quello di creare un coinvolgimento di tutta la sala e una condivisione del racconto e del discorso che sta dietro.

A livello attoriale, qual è per te la differenza tra cinema e teatro? Ti capita mai di ‘contaminare’ le due cose?
La differenza fondamentale è che a teatro si ha possibilità di svolgere un periodo di prove di almeno un mese, quindi si arriva molto più forti al debutto con una approfondita conoscenza del testo e il rapporto con il regista è quotidiano. In cinema tutto questo non c’è e si fa quindi un lavoro più individuale, solitario, che implica una gestione da autodidatta sia dell’analisi del testo che dello studio del personaggio. In verità si nascondono molti più tranelli lavorando per il cinema. In teatro un attore è più tutelato; il set può essere caotico, sfavorevole alla concentrazione per cui il lavoro in cinema o in televisione richiede una serie di contromisure rispetto a tutti questi ostacoli. Anche il rapporto con il pubblico e con la macchina da presa è diverso, perché il linguaggio teatrale ti impone una certa fisicità.

E in particolare per questo spettacolo, in cui improvvisazioni e dialogo con il pubblico sono fondamentali, come si coniuga la tua esperienza cinematografica con il linguaggio teatrale?
In uno spettacolo come Ogni bellissima cosa, soprattutto se messo in scena al in un luogo come Palazzo Calapaj-D’Alcontres in cui la platea ha un numero ridotto, c’è un’intimità e una prossimità per cui si può adottare uno stile recitativo più naturalistico, più colloquiale, più simile a una recitazione cinematografica, se vogliamo.

Come si lavora su un copione che include anche delle parti di improvvisazione?
È difficile. Effettivamente lo spettacolo nasce solo nel momento in cui lo metti in scena, non ci sono altre vie.  Quindi il lavoro è iniziato dalle prove in maniera ‘diretta’, come in questo caso, con la regista Monica Nappo e successivamente abbiamo coinvolto un numero ridotto di persone con delle prove aperte per iniziare a capire come funzionavano le improvvisazioni. Facendo questi step ti avvicini un po’ a quello che sarà il risultato finale. Se c’è qualche resistenza da parte del pubblico devi riuscire a far cadere le barriere di inibizione, di timidezza.
Un aspetto molto bello di questo testo, però, è che ha un modo di coinvolgere il pubblico non aggressivo e quindi, a un certo punto, il pubblico si tranquillizza e si diverte anche, a volte mi spiazza.

 

Ph. Giuseppe Contarini – Fotoinscena