TUTTI SIAMO CAINO, TUTTI SIAMO ABELE

DI GIUSY BOCCALATTE

 

Il fratricidio più antico della storia dell’umanità viene interpretato con una chiave di lettura inedita e singolare nel testo Caino. Homo necans, dramma andato in scena il 10 febbraio 2019 nella suggestiva cornice della Chiesa di Santa Maria Alemanna, che ha debuttato nel 2016 nel cartellone della Sala Laudamo, ridotto del Teatro Vittorio Emanuele di Messina. La regia e la drammaturgia, entrambe curate da Auretta Sterrantino, hanno rivoluzionato la versione canonica consegnataci dalla Bibbia che attribuirebbe tradizionalmente il ruolo di carnefice a Caino (interpretato dall’attore Giacomo Lisoni), e quello di vittima ad Abele (interpretato dall’attore Michele Carvello). Questo tipo di riscrittura è il risultato dello studio di alcuni testi critici sulle figure di Caino e Abele, a cui la regista si è ispirata per la stesura del suo testo.  Lo spettacolo è il primo capitolo della Trilogia dei Traditori o Portatori di colpa, in cui il tradimento viene declinato e dispiegato in forme non ortodosse come ci si aspetterebbe. Nulla è come appare o come ci è stato originariamente trasmesso. Ciò che sembra rappresentare il bene non è proprio il bene, e ciò che sembra indice del male, forse non è proprio il male. Viene stravolta la visione rigidamente dicotomica di bene e male attraverso un’identità e una sintesi dei due personaggi, la cui umanità e le cui debolezze si fondono e si confondono fino a renderli due uomini uguali, alla pari, complementari: due facce della stessa medaglia. In scena entrambi si battono il petto, a riprova del fatto che in fondo entrambi sono peccatori e traditori. Secondo questa prospettiva, c’è una linea sottile, quasi impercettibile, tra tradito e traditore, buono e cattivo, giusto e sbagliato.

È un dramma della colpa che sposta il focus su una duplice colpevolezza, e non su un unico colpevole. Non a caso le figure di Caino e Abele vengono analizzate assieme. L’uno non può prescindere dall’altro. Non esiste Caino senza Abele e viceversa, così come non può esistere il male senza il bene e viceversa, la luce senza il buio e viceversa.
Da un lato Abele:

Abele lavora. Abele conosce fatica.
Abele onora il padre e la madre.
Abele nutre i suoi doni.

Abele parrebbe un uomo giusto, buono, retto, biondo, bello esteriormente e interiormente, baciato dalla luce del sole, coraggioso e spavaldo. Il prototipo di figlio ideale, il migliore tra i due. Pastore sicuro nel colpire il suo gregge. «Se farai bene avrai bene» è uno tra i versi reiterati nella bocca di Abele, così come «non uccidere», secondo quanto indicato dai sacri precetti, in netta contraddizione con il sangue di cui si macchia ogni volta che uccide un vitello: Abele uccide in nome di Dio.

L’attualità della storia di Caino e Abele è sorprendente e disarmante. Abele riesce a vedere con la luce, ma non nel buio. Abele non vede Caino come vorrebbe e non come Caino vorrebbe che lui lo vedesse. Per Abele «il saggio ha occhi in fronte, lo stolto cammina nel buio» e non ha interesse per ciò che è distante e diverso da lui. Non riesce a guardare Caino, a riflettersi nei suoi occhi e tende a distogliere lo sguardo da quello di suo fratello, verso cui esprime profondo disprezzo.

Caino è l’agricoltore, fa un lavoro più puro di Abele coltivando i frutti della terra, che però il Signore rifiuta. Finisce con lo sporcarsi le mani, che non riposano mai e diventano nere e ruvide, così come nero e oscuro è il suo profilo. Nato da un fulmine maledetto, è l’opposto del fratello. È la pecora nera, quello inadeguato, curvo, insicuro, ma al contempo sensibile, con i sensi acuiti, in grado di sentire e ascoltare i desideri del suo corpo e le sensazioni degli altri, che si impietosisce nel vedere un vitello sgozzato. Nascosto all’ombra «dove trova posto per stare», la luce non lo accarezza. Emblema di incomunicabilità e incomprensione, trova conforto nel fiore bianco che curava, osservava e annusava fino a quando non è stato calpestato da Abele, che inconsapevole nega a Caino la possibilità di custodire quel fiore, unico suo compagno.
I seguenti versi ricorrenti descrivono Caino:

Caino. Caino non è come sembra.
Caino non ha occhi da animale.
Caino non ha doni, ma Caino ancora non lo sa.

Le figure di Caino e Abele incarnano due modelli diversi di essere che si compensano, ma collidono e si rifiutano senza mai accettarsi. Eppure rappresentano due aspetti che nell’umano, coesistono e si oppongono, alternandosi nel prevalere. Caino e Abele sono due fratelli molto diversi, ma uguali perché due parti di una stessa umanità.

Alla fine del dramma e alla luce del confronto emerso dalla tavola rotonda moderata dal critico teatrale Vincenza Di Vita in cui hanno dibattuto, assieme alla regista, Carmelo Carvello, docente di Teologia e studioso di Filosofia, e Berardino Palumbo, professore di Antropologia, sorge spontaneo interrogarsi su molte tematiche e chiedersi chi è il vincitore e chi è il vinto? Il male prevale sul bene? L’uomo nasce buono e poi tende al male, o il peccato originale fa di noi prima dei peccatori e poi degli uomini? Le due cose non dovrebbero coincidere? Siamo uomini anche perché tradiamo e sbagliamo, a volte uccidendo e ferendo con violenza. Che sia con le armi o con le parole.

Se molti spettatori sono stati accomunati dalle stesse domande, allora il teatro di QA-QuasiAnonimaProduzioni ha svolto una delle sue funzioni, quella cioè di innescare un processo critico di riflessione, interessando e destando stupore senza arrogarsi la pretesa di rispondere.