VIAGGIO NELL’ISOLA GALLEGGIANTE #3

DIARIO DI GIORNATE DI PROVA DI RICCARDO III. SUITE D’UN MARIAGE
A CURA DI ANDREA ANSALDO
PH. VALENTINA MESSINA

16 Novembre 2018

A distanza di una decina di giorni ritorno in sala prove. Sorprendentemente, ritrovo la sala ripulita e ordinata, una gioia per gli occhi di tutti gli occupanti. Giulia e Michele iniziano il riscaldamento; una pratica che ai miei occhi inizia ad assumere caratteristiche di solennità. L’impressione è quella di un limbo in cui l’entità-attore e l’entità-personaggio convivono. Altresì, potrei dire che il riscaldamento non mi sembra tanto diverso dallo scavare al proprio interno nel tentativo di dissotterrare elementi sopiti della propria persona fisica e “spirituale”. Quando iniziano a emergere i personaggi cominciano le prime prove tecniche della giornata. Oggi il focus è l’audio, le scelte legate allo stesso e la sua coordinazione con i movimenti degli attori. Entro quindi in contatto con un concetto di cui ignoravo l’esistenza: la “drammaturgia musicale”, o meglio, la capacità di tessere una rete di significati all’interno del dramma intrecciando parola, azione e musica; concedendo medesima dignità a ciascuno dei tre elementi. Sostanzialmente, un lavoraccio, ma che risulta centrale nella riuscita di Riccardo III. Suite d’un Mariage. Parlandone direttamente con Auretta, mi spiega come lo studio e la ricerca sulla drammaturgia musicale sia una costante del suo lavoro e, infatti, anche sul sito viene riportato come l’opera di QA viva nella volontà di unificare “musica, gesto e parola”. In questo Riccardo III, ad esempio, si è optato per delle musiche dalle sonorità elettroniche, qualcosa di molto distante dai suoni della musica di fine XVI secolo. Eppure la scelta mi sembra azzeccata. Le musiche composte da Filippo La Marca e Vincenzo Quadarella, pur presentando tratti di modernità, mi sembrano fuori dal tempo, così come l’opera in sé. È come se questo complesso di musica, gesto e parola voglia staccarsi dalle direttive temporali dell’opera shakespeariana per restare sospeso e fluttuante senza, però, dimenticare la fonte originaria. Tutto questo lavoro di ricerca drammaturgica musicale dà l’idea di un puzzle sonoro mutevole, da comporre e ricomporre al fine di giungere alla miglior combinazione. Mi risulta difficile a questo punto non paragonare le diverse modalità di montaggio proprie del cinema e del teatro. Oggi la tecnologia contribuisce a rendere la settima arte ancor più reale, costruendo un inganno perfetto, ma al tempo dei maestri del cinema delle origini la tecnica era necessariamente diversa. Quella stessa tecnica, però, è l’unica che può restituire il senso di “artigianalità” proprio del montaggio di una scena teatrale. Il metaforico puzzle sopracitato assume valore non tanto al suo completamento, ma nella opportunità che dà all’autore di poterlo modellare. Ai miei occhi, vedere come si uniscono i tre elementi della drammaturgia musicale mi consente di immaginare Ėjzenštejn che tagliuzza e appiccica pezzi di pellicola nel tentativo di creare un capolavoro; mi dà l’opportunità di immaginarlo mentre colora di rosso la bandiera russa che sventola negli ultimi fotogrammi de La corazzata Potëmkin. Inoltre, lo stesso Ejzenštejn fu uomo di teatro prima ancora di essere il regista che tutti conoscono (grazie ragionier Fantozzi!). Fu allievo di Mejerchol′d, esperienza che lo portò a maturare le sue teorie sul montaggio, inteso come movimento compositivo complesso che riorganizza gli elementi indipendenti della forma teatrale. Tornando a noi, posso dire che assistere al montaggio di una scena restituisce il senso di un lavoro fondamentale, ma che non è dato conoscere a tutti. L’ultima fase del giornata è interamente occupata dalla filata. È la prima volta che vedo lo spettacolo dal vivo, ma è ancora presto per sbilanciarsi. Cerco di osservare il tutto in modo distaccato per provare a capire cosa aspettarmi il giorno della performance vera e propria e per cercare di apprendere qualcosa in più su ciò che sto osservando. Osservo lo sguardo degli attori, le vene su braccia e collo, come utilizzano il loro corpo in relazione al senso di una scena. Ma i miei occhi non vogliono posarsi solo sullo spazio scenico, spesso mi trovo a osservare il display da dove Auretta gestisce le tracce audio e i volumi. Ho così la possibilità di vedere messo in atto il frutto dell’unione tra musica, gesto e parola. Trattandosi comunque di una prova, e quindi anche priva di disegni di luci e di una location adeguata, assisto a uno spettacolo ancora “grezzo”, un diamante in attesa di essere tagliato. Nonostante ciò non mi sentirei di sminuire l’importanza didattica di questa esperienza. Dopotutto sto assistendo a uno step necessario ai fini della riuscita della pièce, oltre che al frutto di un preciso studio sulla drammaturgia musicale. Quest’ultimo in particolare lo vedo come l’ulteriore riproposizione dello splendido incontro tra arte e tecnologia, che consente, ancora una volta, di accrescere la cifra emozionale di una data opera.